Una città corrotta e inesplicabile
“Il mobile degli inediti è un armadio alto più di un metro e pieno di cassetti.
Una specie di mobile di plastica, gonfio di carte”. Così Mario Muchnik, leggendario
editore nato a Buenos Aires ma trapiantato giovanissimo in Europa, descrive l’archivio
“disordinatamente ordinato” in cui il suo amico Cortázar conservava inediti, lettere,
abbozzi, quaderni che hanno permesso alla sua opera di continuare a crescere, di
sovvertire le cronologie consolidate, e in un certo senso di “autoriscriversi” alla
luce del lavoro fatto dai curatori e dall’erede Aurora Bernárdez.
È da quei cassetti che sono spuntati i materiali preparatori di Rayuela,
romanzo del quale tutto il mondo di lingua spagnola ha celebrato nel 2013 il cinquantenario,
tra mostre, edizioni speciali, conferenze e dibattiti; è da lì che vengono i sette
volumi della corrispondenza e le quasi cinquecento pagine di Carte inaspettate
(Einaudi 2012), che includono racconti, interviste “allo specchio”, poesie, scritti
politici. E un altro regalo del mobile di plastica sono le edizioni postume dei
primi romanzi di Cortázar, Divertimento (1949) e L’esame (1950), testo
che ne ha poi è generato un altro, Il diario di Andrés Fava, grazie all’estrapolazione
di un lunghissimo capitolo dedicato ai pensieri e alle annotazioni di uno dei personaggi
principali.
Tre opere, dunque, scritte in Argentina poco prima che lo scrittore la lasciasse
nel 1951 per stabilirsi definitivamente a Parigi. E soprattutto tre opere mai inserite
nella categoria dei “romanzi morti, conservati dagli autori a testimonianza del
proprio fallimento” (la definizione è di un altro argentino, Tomás Eloy Martínez),
perché non solo Cortázar le salvò dalla distruzione cui nel 1960 aveva condannato
un altro romanzo, Soliloquio, ma le lasciò “quasi pronte per la pubblicazione”,
giudicandole di un certo interesse per i suoi lettori.
Pubblicati in lingua spagnola nel 1986, due degli inediti sono già usciti in
Italia (Divertimento nel 2007, Il diario di Andrés Fava nel 2011)
per le edizioni Voland, che ora mandano in libreria anche L’esame, affidato
alla brava Paola Tomasinelli, qui alle prese con una lingua piena di invenzioni
e di vecchie espressioni porteñas ormai in disuso, e con una scrittura dalle
tinte surrealiste, abbastanza sperimentale da richiedere al traduttore un certo
impegno. Proprio come i testi precedenti, anche questo sembra confermare un’idea
diffusa, e cioè che Cortázar, straordinario autore di racconti, non abbia raggiunto
esiti altrettanti felici nel romanzo; e tuttavia L’esame presenta motivi
di interesse sufficienti a non archiviarlo come “preistoria cortazariana”, o come
un semplice testo di transizione non del tutto riuscito, in cui si affacciano elementi
che sembrano annunciare Rayuela, l’obra maestra divenuta lettura iniziatica
per i giovani degli anni ’60 e ’70, ma che oggi una parte della critica, pur senza
condividere il duro giudizio di César Aira (“Il miglior Cortázar è un cattivo Borges”),
considera alquanto logorata dal passare degli anni.
I punti di contatto sono numerosi: il piccolo clan di amici, così simile al
Club del Serpente, che attraversa il romanzo parlando di letteratura e del senso
delle cose, l’autoreferenzialità dei giovani protagonisti e la loro sincera ansia
di ricerca, i giochi di parole, lo humour usato come esorcismo, il sottile machismo
(il rapporto tra Andrés e Stella ricorda quello autoritario e “verticale” tra Oliveira
e la Maga), il vagare incessante per la grande città, le situazioni irrisolte che
lasciano al lettore spazi vuoti da riempire… Ma L’esame, testo quasi privo
di trama e composto in buona parte da dialoghi (“un succedersi di chiacchiere da
caffè articolate narrativamente”, scrive il critico spagnolo García Martín), non
è solo un seme dal quale nascerà l’albero di Rayuela: è anche un castello
di allusioni e metafore che contribuiscono a far luce sui motivi per cui lo scrittore
lasciò l’Argentina peronista. Non dimentichiamo che Cortázar, quando elabora questo
suo secondo romanzo, ha ormai dato le dimissioni dall’Università di Cuyo, dove insegnava
letteratura francese, per non sottostare al controllo peronista sulle attività educative
e sulla produzione di cultura; ma soprattutto ha scritto, oltre ad articoli e racconti
pubblicati su diverse riviste, un dramma in versi, Los reyes, in cui si fronteggiano
Teseo (“il perfetto fascista”) e il Minotauro, che, afferma l’autore nel prologo
all’edizione francese, rappresenta “il poeta, la creatura doppia capace di percepire
una realtà diversa da quella abituale, e più ricca”, insomma “un mostro” temuto,
odiato e perseguitato dai tiranni di ogni epoca.
I giovani intellettuali di L’esame sono e si sentono mostri del genere,
assediati da una presenza fantasmatica e minacciosa (Abel, personaggio sempre intravisto
e mai raggiunto), persi in una città solo in apparenza riconoscibile, ma in realtà
invasa da una nebbia appiccicosa, da un’umidità bollente, dal proliferare di strani
funghi le cui spore volano dappertutto, e infine da una folla terrificante e barbara,
chiamata all’adorazione inesplicabile di un osso in Plaza de Mayo e guidata dalla
voce di un candidato che sbraita slogan insensati, mentre la cultura ufficiale si
rinchiude in una Casa dove migliaia di persone “consumano” mondanamente l’ascolto
di libri che non leggeranno mai, in una sorta di apoteosi del reading che
sembra prefigurare i nostri festival letterari. Questo paesaggio urbano corrotto
e inesplicabile è, per Cortázar, l’Argentina di allora, la sua Argentina, governata
da un regime che gli ripugna e dalla quale si può solo fuggire, alla lettera o con
l’enigmatico colpo di pistola che suggella il romanzo, verso “un’altra riva”.
Come sottolinea lo scrittore e saggista Carlos Gamerro, “Cortázar sta al peronismo
come Kafka sta al fascismo: non esplora la sua politica, ma la sua metafisica”.
Forse è proprio in questa chiave che, oggi, si può leggere L’esame, certamente
imperfetto eppure capace di cogliere l’essenza di una realtà inquietante, con le
sue strade infette, le sue folle stregate da un populismo bugiardo e manipolatore,
i funzionari della cultura ciechi alla realtà o pronti ad adeguarsi al potere, i
protagonisti impotenti, sospesi tra il suicidio e la fuga: sì, è l’Argentina degli
anni ’50, eppure tutto questo non ci suona stranamente familiare?
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2013