sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Yuri Herrera


Yuri Herrera



Una discesa agli inferi

Tagliata per lunghi tratti da una colossale struttura metallica che divide in due terreni, fattorie e cortili (il muro voluto da Bush nel 2006), la striscia di terra fra Stati Uniti e Messico è uno spazio dove “pieno” e “vuoto” si alternano: sin troppo affollato quando le città si toccano e si confondono – Tijuana e San Diego, Juarez ed El Paso –, e apparentemente deserto là dove distese di rocce e polvere consentono di contrabbandare uomini e merci, in un enorme va-e-vieni che possiede l’invincibile costanza della risacca. Ma la Frontiera è anche, ha scritto qualcuno, uno dei territori “postmoderni” del pianeta, un luogo dove tutto si contamina, muta e si frammenta.

Non c’è da meravigliarsi, allora, che attorno a essa siano nate leggende, canzoni, storie raccontate in mille modi diversi, e che il cinema e la letteratura ne abbiano fatto, più che un fondale, un vero e proprio personaggio. Da Cormack McCarthy a Roberto Bolaño, non si contano gli scrittori che ne hanno affrontato ogni risvolto: criminalità, narcotraffico, violenza, corpi abbandonati e insepolti, mescolanza di culture, e infine il cammino degli immigrati che continuamente proiettano “l’incubo messicano” verso il “sogno americano”. E proprio della immensa migrazione che ha portato negli USA quasi cinquanta milioni di latinos, ci parla Segnali che precederanno la fine del mondo (La Nuova Frontiera) di Yuri Herrera, nato ad Actopan e ormai considerato uno degli scrittori messicani più interessanti e originali, capace di guadagnarsi con due soli titoli un posto di primissimo piano nella letteratura latinoamericana contemporanea.

Il lettore che già conosca la sorprendente opera prima di Herrera (La ballata del re di denari, La Nuova Frontiera, 2011), ritroverà qui la medesima capacità di offrire a una trama ben disegnata, la cui poetica sobrietà ci appare esemplare, il sostegno di un linguaggio limpido, semplice ma non facile, aperto a ibridazioni significative e mai casuali (non per niente tradurlo è una vera impresa): ogni parola è scelta e meditata fino a presentarsi come quella giusta, l’unica possibile. Allo stesso modo, chi legge sa già che, nonostante l’argomento, da questo autore non deve aspettarsi né una narconovela iperrealista né un romanzo sociale, ma una narrazione che per rappresentare la realtà utilizza la struttura del mito e della fiaba, senza per questo andare a confondersi con il vecchio realismo magico, o arrendersi al fantastico. Per raccontare il viaggio di una ragazza, Makina, che dal nord del Messico va alla ricerca del fratello emigrato negli Stati Uniti, Herrera disegna infatti un percorso modellato sui nove livelli del Mictlan, il regno dei morti della mitologia Mexica (ciascun livello dà il nome a un capitolo del libro), e così facendo ci offre diverse possibilità di lettura.

A prima vista Makina è solo una donna coraggiosa che viaggia da sola ed è capace di cavarsela in ogni situazione, procurandosi l’aiuto delle persone giuste (signori della droga che le affidano pacchetti misteriosi, compaesani saggi e soccorrevoli); allo stesso tempo, però, è anche la protagonista di una discesa agli inferi, una Euridice che ha scelto per sé il ruolo di Orfeo, e che come lui non riuscirà a riportare indietro l’essere amato. O ancora, per chi conosce la fiaba popolare europea, la protagonista del romanzo di Herrera assomiglia alle eroine che partono alla ricerca di un fidanzato, un padre, un fratello rapito, stregato o perduto, e per raggiungerlo superano mille prove, bussando alla porta dei più bizzarri aiutanti magici.

Il viaggio di una clandestina attraverso il deserto, oltre il fiume e la montagna, i suoi incontri e scontri, l’ingresso in un mondo nuovo dove gli immigrati sono invisibili e cauti come spettri, dove l’umiliazione e lo sfruttamento sembrano inevitabili e la menzogna è indispensabile, acquistano così coloriture iniziatiche, trascendono la realtà locale e la vicenda individuale per diventare storia di tutti, e soprattutto ci mostrano fino a che punto la migrazione (che, dice Herrera “definisce la nostra epoca”) sia un ineludibile spazio di cambiamento, dove ci si nutre gli uni degli altri: in un mondo sempre più fluido e instabile, mutano l’identità e il linguaggio dei migranti, ma anche quelli di chi li vede arrivare. “Mi hanno cambiato pelle”, mormora Makina – che conosce le lingue di entrambi i mondi e per natura e mestiere è un tramite, una mediatrice – quando, arrivata “nel luogo di ossidiana dove non ci sono finestre né fori per il fumo”, riceve nuovi documenti e un nuovo nome. E la sua potrebbe essere una morte quanto una rinascita, o tutte e due le cose insieme, così com’è accaduto al fratello che, pagato per prendere il nome di un ragazzo americano e andare in guerra al suo posto, è ormai un estraneo al quale “hanno divorato il cuore”.

 

 Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2012