Una discesa agli inferi
Tagliata per lunghi tratti da una colossale struttura metallica che divide in
due terreni, fattorie e cortili (il muro voluto da Bush nel 2006), la striscia di
terra fra Stati Uniti e Messico è uno spazio dove “pieno” e “vuoto” si alternano:
sin troppo affollato quando le città si toccano e si confondono – Tijuana e San
Diego, Juarez ed El Paso –, e apparentemente deserto là dove distese di rocce e
polvere consentono di contrabbandare uomini e merci, in un enorme va-e-vieni che
possiede l’invincibile costanza della risacca. Ma la Frontiera è anche, ha scritto
qualcuno, uno dei territori “postmoderni” del pianeta, un luogo dove tutto si contamina,
muta e si frammenta.
Non c’è da meravigliarsi, allora, che attorno a essa siano nate leggende, canzoni,
storie raccontate in mille modi diversi, e che il cinema e la letteratura ne abbiano
fatto, più che un fondale, un vero e proprio personaggio. Da Cormack McCarthy a
Roberto Bolaño, non si contano gli scrittori che ne hanno affrontato ogni risvolto:
criminalità, narcotraffico, violenza, corpi abbandonati e insepolti, mescolanza
di culture, e infine il cammino degli immigrati che continuamente proiettano “l’incubo
messicano” verso il “sogno americano”. E proprio della immensa migrazione che ha
portato negli USA quasi cinquanta milioni di latinos, ci parla Segnali
che precederanno la fine del mondo (La Nuova Frontiera) di Yuri Herrera, nato
ad Actopan e ormai considerato uno degli scrittori messicani più interessanti e
originali, capace di guadagnarsi con due soli titoli un posto di primissimo piano
nella letteratura latinoamericana contemporanea.
Il lettore che già conosca la sorprendente opera prima di Herrera (La ballata
del re di denari, La Nuova Frontiera, 2011), ritroverà qui la medesima capacità
di offrire a una trama ben disegnata, la cui poetica sobrietà ci appare esemplare,
il sostegno di un linguaggio limpido, semplice ma non facile, aperto a ibridazioni
significative e mai casuali (non per niente tradurlo è una vera impresa): ogni parola
è scelta e meditata fino a presentarsi come quella giusta, l’unica possibile. Allo
stesso modo, chi legge sa già che, nonostante l’argomento, da questo autore non
deve aspettarsi né una narconovela iperrealista né un romanzo sociale, ma
una narrazione che per rappresentare la realtà utilizza la struttura del mito e
della fiaba, senza per questo andare a confondersi con il vecchio realismo magico,
o arrendersi al fantastico. Per raccontare il viaggio di una ragazza, Makina, che
dal nord del Messico va alla ricerca del fratello emigrato negli Stati Uniti, Herrera
disegna infatti un percorso modellato sui nove livelli del Mictlan, il regno dei
morti della mitologia Mexica (ciascun livello dà il nome a un capitolo del libro),
e così facendo ci offre diverse possibilità di lettura.
A prima vista Makina è solo una donna coraggiosa che viaggia da sola ed è capace
di cavarsela in ogni situazione, procurandosi l’aiuto delle persone giuste (signori
della droga che le affidano pacchetti misteriosi, compaesani saggi e soccorrevoli);
allo stesso tempo, però, è anche la protagonista di una discesa agli inferi, una
Euridice che ha scelto per sé il ruolo di Orfeo, e che come lui non riuscirà a riportare
indietro l’essere amato. O ancora, per chi conosce la fiaba popolare europea, la
protagonista del romanzo di Herrera assomiglia alle eroine che partono alla ricerca
di un fidanzato, un padre, un fratello rapito, stregato o perduto, e per raggiungerlo
superano mille prove, bussando alla porta dei più bizzarri aiutanti magici.
Il viaggio di una clandestina attraverso il deserto, oltre il fiume e la montagna,
i suoi incontri e scontri, l’ingresso in un mondo nuovo dove gli immigrati sono
invisibili e cauti come spettri, dove l’umiliazione e lo sfruttamento sembrano inevitabili
e la menzogna è indispensabile, acquistano così coloriture iniziatiche, trascendono
la realtà locale e la vicenda individuale per diventare storia di tutti, e soprattutto
ci mostrano fino a che punto la migrazione (che, dice Herrera “definisce la nostra
epoca”) sia un ineludibile spazio di cambiamento, dove ci si nutre gli uni degli
altri: in un mondo sempre più fluido e instabile, mutano l’identità e il linguaggio
dei migranti, ma anche quelli di chi li vede arrivare. “Mi hanno cambiato pelle”,
mormora Makina – che conosce le lingue di entrambi i mondi e per natura e mestiere
è un tramite, una mediatrice – quando, arrivata “nel luogo di ossidiana dove non
ci sono finestre né fori per il fumo”, riceve nuovi documenti e un nuovo nome. E
la sua potrebbe essere una morte quanto una rinascita, o tutte e due le cose insieme,
così com’è accaduto al fratello che, pagato per prendere il nome di un ragazzo americano
e andare in guerra al suo posto, è ormai un estraneo al quale “hanno divorato il
cuore”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2012