sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Diamela Eltit


Diamela Eltit




Resistere alle imposizioni del mercato 

Doveva esserci anche lei, Diamela Eltit, alla presentazione del suo romanzo al Salone del Libro di Torino del 2013, ma ha preferito non fare parte della delegazione ufficiale cilena per mantenere una salutare distanza dall’attuale governo di destra, che, dice, “nonostante sia democratico è percorso da segni, tracce, conseguenze della passata dittatura. Come abitante dell’inxilio (cioè l’esilio interiore) di quegli anni, ho un rapporto traumatico e irreversibile con quel periodo e non posso smettere di evocare l’adesione della destra cilena al periodo storico più distruttivo del XX secolo. Ho assistito in qualità di membro della delegazione cilena alla Fiera del Libro di Guadalajara del 2011 ed è stato un errore da parte mia, imbarazzante e per me dannoso. Nel corso di quel viaggio ho capito i miei limiti e le limitazioni della memoria. Ma io scrivo libri e i miei libri non hanno bisogno di me, hanno bisogno degli altri, in quell’incontro casuale che distingue la lettura”. Ed è proprio attraverso la prima traduzione italiana di un suo romanzo, Imposta alla carne (Atmosphere) che possiamo ora conoscere questa scrittrice e saggista nata a Santiago nel 1949, poco nota fuori dal suo paese ma considerata da molti di importanza capitale per la letteratura latinoamericana contemporanea.

Il peruviano Julio Ortega, professore di Hispanic Studies alla Brown University e influente critico letterario, osserva che la Eltit ha saputo resistere alle imposizioni del mercato, facendo della propria scrittura uno strumento di cospirazione contro l’ordine dominante, e aggiunge che i suoi testi sembrano respingere, con la loro estetica radicale e poco compiacente, il lettore assuefatto ai best sellers o ai “premi obbligatori” assegnati alla letteratura light. In effetti siamo di fronte a una proposta narrativa non facile, che richiede al lettore un costante lavoro di decifrazione dei codici e delle metafore sui cui si basano i nove romanzi – il primo, lo spiazzante ed ermetico Lumpérica, è apparso nel 1983 – con cui l’autrice ha scelto di violare o ignorare qualsiasi canone, per occupare un luogo forse riservato a pochi, ma che offre sfide e sorprese continue a chi decida di raggiungerlo. La sua esplorazione dei margini, che l’ha portata a concentrarsi sulle voci di matti e prostitute, clochards e sottoproletari, malati e galeotti, e a restituirceli attraverso monologhi o dialoghi turbinosi e ipnotici, si appoggia a una prosa spezzata, a tratti oscura, definita di volta in volta sperimentale o neoavanguardista e che rimanda a meccanismi poetici e teatrali (uno degli autori che più l’hanno influenzata è Beckett), ma anche al neobarocco teorizzato dal cubano Severo Sarduy, inserendo la Eltit nella schiera dei raros, i grandi scrittori eccentrici e spesso segreti che, diversissimi tra loro ma quasi sempre prodigiosi, illuminano la letteratura latinoamericana.

Per meglio comprendere un’autrice così singolare, capace di non cedere a quella che, in Literatura de Izquierda (Beatriz Viterbo 2004), Damian Tabarovsky chiama la cristallizzazione dell’avanguardia – cioè la sua trasformazione in “letteratura banale”, nel momento in cui “la prosa comincia a fare concessioni riguardo al linguaggio” –, bisogna innanzitutto tenere presente quello che lei stessa chiama inxilio, vissuto durante gli anni della dittatura. Diamela Eltit, infatti, non si è unita alla diaspora cui sono stati costretti tanti intellettuali cileni (tra essi il secondo marito della scrittrice, Jorge Arrate, economista che per incarico di Allende sovraintese alla nazionalizzazione delle miniere di rame), e tuttavia è riuscita a organizzare in patria una vera e propria sacca di resistenza culturale insieme al poeta Raúl Zurita, al sociologo Fernando Balcells e agli artisti visivi Lotty Rosenfeld e Juan Castillo, come lei componenti del CADA, Colectivo Acciones de Arte, fondato nel 1979 e attivo sino al 1985. Al CADA, cui nel 2009 il Museo della Resistenza di Torino ha dedicato un’ampia mostra, si devono una serie di azioni e performances politiche e artistiche di grande impatto, una delle quali ha comportato un lungo vagabondaggio nelle zone più povere ed emarginate di Santiago, poi risultato fondamentale per la definizione della poetica di Eltit; incontri come quello con il barbone schizofrenico che le ispirerà El padre mio (1989) e con gli abitanti di bordelli, manicomi, ospedali, bidonville, hanno segnato la sua narrazione del Cile, della dittatura e dell’innesto del neoliberismo più estremo su una società profondamente classista: è da qui che nasce un lavoro sul linguaggio destinato a smascherare l’insensatezza delle parole di cui la destra cilena ha fatto e fa un uso incessante (patria, famiglia, nazione), e a strappargliele perché risuonassero in un altro modo.

È attraverso romanzi intensi come El cuarto mundo (1988), Los vigilantes (1994) e i magnifici Mano de obra (2002), ambientato in un enorme supermercato, e Jamas el fuego nunca (2007) – doloroso dialogo di una coppia di ex militanti comunisti sulla clandestinità, la detenzione, la morte di un figlio nato da una violenza subìta in carcere –, che si arriva al claustrofobico Imposta alla carne, in cui due donne, madre e figlia, si aggirano per i corridoi, le corsie, le sale operatorie e gli ambulatori di un immenso ospedale senza nome dove medici onnipotenti, con un codazzo di infermiere devote e di fans simili al gregge dei followers digitali o alle tifoserie calcistiche, si accaniscono contro i loro corpi. Vecchissime perché in circolazione da almeno duecento anni, brutte, scure di pelle e basse di statura, anarchiche dichiarate, le due ripetono a ogni istante di essere sole al mondo, hanno misteriosamente la stessa età e non si separano mai. Due secoli di rapporto conflittuale (una “relazione di coppia”, quella madre-figlia, affrontata da Eltit anche in Por la patria, del 1986) le hanno fuse una all’altra, tanto da trasferire il corpo materno all’interno di quello della figlia, in una sorta di apoteosi teratologica che fa pensare al mito e alla sua versione degradata, il baraccone dei freaks opportunamente evocato dall’editore in copertina, dove campeggia la foto di Myrtle Corbin, l’adolescente a quattro gambe esibita da Barnum.

Proprio attraverso le loro figure inscindibili, che lottano per la sopravvivenza e sognano all’unisono, l’autrice torna a confermare una profonda attenzione per la corporeità e la sofferenza delle donne (“Siamo in tante a morire, tante donne, no? Chissà come mai”), che a cominciare da l’Iluminada, la protagonista di Lumpérica, si raccontano nei suoi romanzi con voci sempre diverse. Qui, in Imposta alla carne, è quella della figlia a parlarci ossessivamente di reclusione, controllo, terrore, perdita di identità, corpi considerati residuali, semplici fonti di profitto (il sangue e gli organi delle ricoverate vengono venduti ai trafficanti, i loro cadaveri concimeranno remoti campi cinesi), e risulta subito chiaro che l’universo concentrazionario dell’ospedale è in realtà l’allegoria di un paese carico di memorie terribili e in procinto di festeggiare il proprio Bicentenario repubblicano, nonché una metafora del mercato che svuota il corpo-territorio delle sue risorse, lo manipola e lo devasta, appoggiato dal coro selvaggio ed entusiastico dei fans. Ma, anche se l’istituzione provvede a trasformare i pazienti in puri pezzi di carne funzionali al benessere e all’ordine nazionali, il potere non garantisce nulla: anche i dottori e le infermiere-secondine potrebbero sparire all’improvviso, scivolando a loro volta nel limbo dell’esclusione per ragioni ignote, dalla droga all’omicidio alla corruzione.

Come un vortice, il racconto si avvolge su stesso e trascina via il lettore nei gorghi di un linguaggio mai addomesticato, poetico e di un sarcasmo sommesso, ma non per questo meno violento, che non rende certo facile il compito del traduttore; ma va da sé che sia comunque valsa la pena di affrontare l’impresa, pur di proporre nella nostra lingua una autrice appartata ma di enorme prestigio, che ha già lasciato traccia di sé nella giovane letteratura cilena più sofisticata.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2013