sabato 7 giugno 2014

da leggere: José Donoso



José Donoso


La Marchesa uscì alle Cinque

Che il Cile sia “terra di poeti”, più che di grandi narratori, è un luogo comune assolutamente vero e a smentirlo non basta l’esistenza dei molti buoni scrittori del passato e del presente, di outsiders geniali come Pedro Lemebel o di astuti fabbricanti di best sellers come Sepúlveda e la Allende. Ci sono tuttavia almeno due eccezioni, due nomi che svettano su tutti gli altri: quelli di José Donoso (1924-1996) e di Roberto Bolaño (1953-2003), autori differentissimi e appartenenti a generazioni diverse, ma entrambi collocabili senza esitazioni tra i più grandi romanzieri di lingua spagnola del novecento.
L’immenso successo postumo del secondo negli Stati Uniti, complice il parere entusiasta di Susan Sontag (ma anche l’equivoco di una fantasiosa e improvvisata mitologia mediatica che lo ha presentato ai lettori americani come un nuovo Borges drogato e “maledetto”, vittima della dittatura di Pinochet), è stato una delle sorprese di questi ultimi anni, tanto che, tradotto in tutto il mondo nonchè amatissimo da un pubblico vasto e appassionato, oggi è certo più noto e letto di Donoso, del quale aveva detto a suo tempo: - Ha scritto alcune opere notevoli, il resto non è granché. Un giudizio piuttosto severo, che conferma i difficili rapporti di Bolaño con l’ambiente letterario del suo paese di origine e che in fondo si potrebbe estendere a chiunque, incluso lui stesso, se si pensa a inediti non memorabili come quelli che vanno apparendo in questi anni: l’ultimo è El tercer Reich, romanzo giovanile del quale nemmeno Jorge Herralde, il primo a credere nell’autore cileno e a pubblicarlo, riesce a tessere un pieno elogio.
Qualunque cosa ne abbia detto Bolaño, l’opera di Donoso (una dozzina di romanzi, molti racconti, un bel libro di memorie) è di straordinaria qualità, anche se non sempre lo scrittore ha maneggiato con la medesima fermezza tutti i registri narrativi che gli piaceva sperimentare, cambiando stile, voce, tecnica, strategie, e facendo di questi mutamenti e trasformazioni una precisa scelta estetica. Inoltre Donoso è stato il primo romanziere cileno a riscuotere un autentico successo internazionale negli anni del cosiddetto Boom latinoamericano, del quale viene considerato un esponente di primo piano, anche se in realtà le sue opere sembrano puntare in un’altra direzione e, come sottolinea il critico argentino Claudio Zeiger, si avvicinano più “ai belli e deformi di Mujica Lainez, ai divi e alle dive di Puig, al cinema di Ripstein e in parte di Almodóvar, che ai testi canonici del boom”.
Nonostante tutto questo, e pur potendo aspirare già in vita alla statura di “classico moderno”, poco prima di morire Donoso avrebbe detto all’amico e allievo Carlos Franz: “Tra dieci anni non mi leggerà più nessuno”. Una malinconica profezia che, per quanto riguarda i lettori italiani, è diventata realtà sin troppo in fretta. L’ultima edizione nella nostra lingua del suo magnifico “L’osceno uccello della notte” (1970) risale infatti al 2003, mentre già da tempo l’abisso del fuori catalogo ha inghiottito altri titoli donosiani usciti presso editori come Feltrinelli, Garzanti, Bompiani, Frassinelli. E altri suoi testi importanti, come Donde van a morir los elefantes o il postumo, tenebrosissimo El Mocho, non sono mai stati presi in considerazione dall’editoria italiana.  
Una cancellazione così radicale trasforma dunque in un piccolo avvenimento la scelta dell’editore Cavallo di Ferro di riproporre “Casa di campagna”, romanzo considerato la obra maestra di Donoso, in una nuova traduzione di Cinzia Buffa che segue a quella di Angelo Morino per la prima edizione italiana (“Marulanda: la dimora di campagna”, Feltrinelli 1985). Un repêchage eccellente, in linea con la nuova attenzione che in Europa come negli Stati Uniti circonda la letteratura di lingua spagnola (e che, con la debita lentezza, comincia a risvegliarsi anche in Italia), ma soprattutto il segno che la memoria del Boom, inteso come moda letteraria e fenomeno di mercato, è impallidita quanto basta perchè opere e autori vengano finalmente riletti in altra luce. E se oggi alcuni testi possono apparirci come semplici gadget anni ’70, altri sembrano misteriosamente migliorare col tempo e si offrono a una sorprendente pluralità di letture.
“Casa di campagna”, apparso per la prima volta nel 1978 e vincitore dello spagnolo Premio de la Crítica, ci appare subito come uno di questi ultimi: un romanzo  labirintico e straordinariamente avvincente che a suo tempo è stato letto come un’allegoria del colpo di stato del 1973, elusiva e piena di suggestioni. I potenti Ventura, padroni di inesauribili miniere d’oro, rappresenterebbero l’oligarchia cilena, mentre il medico Adriano Gomara, prima cooptato dalla famiglia e poi rinchiuso perchè considerato pazzo, sarebbe un “doppio” di Salvador Allende. E a Marulanda, casa di campagna circondata da un recinto che include le diciottomila lance di ferro portate via agli indigeni in tempi remoti, toccherebbe il compito di rappresentare un’intera nazione, il Cile. Ma anche se è stato l’autore stesso a confessare che l’annuncio del colpo di stato lo aveva spinto ad abbandonare un altro romanzo (Cola de lagartija, mai concluso e ritrovato fra le sue carte dalla figlia Pilar) per dedicarsi alla stesura di Casa de campo, una lettura del genere risulterebbe gravemente riduttiva.
Non siamo, infatti, di fronte a un semplice romanzo “a chiave” legato in modo inequivocabile a un contesto storico-politico, ma a una narrazione ricchissima e suscettibile di molte e diverse interpretazioni, in cui si possono riconoscere gli echi di altre opere letterarie, da “il Signore delle Mosche” sino a un’ “Alice nel paese delle Meraviglie”  rivista in chiave gotica; ma “Casa di Campagna” contiene soprattutto i temi più cari allo scrittore, quelli che attraversano tutta la sua opera: la decadenza di una borghesia che, osserva Donoso, “crea un codice chiuso dettando le norme del buongusto, la morale, il male e il bene, le leggi”; l’aspro confronto tra ricchi e poveri, tra servi e padroni; la discesa nella follia, che è allo stesso tempo simbolo del declino di una casta e del rifiuto di riconoscerlo; la predilezione per il travestimento, la metamorfosi, la maschera, che alcuni collegano alla decisione dello scrittore di non rivelare (anzi di non vivere) la propria omosessualità, affiorata solo in anni recenti dai diari ora in possesso di un’università americana; e infine la presenza del mostruoso, del grottesco, del corpo che si fa riflesso di spettri e ombre interiori, “tutti i fantasmi di quel Cile reazionario, residuale”, tra i quali Donoso era cresciuto e che gli ripugnavano e lo attiravano allo stesso tempo.
“Casa di Campagna” è insomma un concentrato della letteratura donosiana e riflette in un certo senso l’avverarsi dell’inconscia profezia sulla tremenda frattura del 1973 contenuta nei primi quattro romanzi scritti prima del lungo soggiorno spagnolo: Coronación (1957) , Este Domingo (1966), El lugar sin límites (1966 ) e soprattutto El obsceno pájaro de la noche (1970), imperniati sul contrasto violento tra un luogo chiuso (un palazzo, un bordello, un convento, una casa di famiglia) in cui regna un ordine sinistro, consolidato attraverso riti, miti e gerarchie, e un esterno per definizione minaccioso, che preme alle porte e cerca di spezzare recinti e barriere. L’immensa magione campestre dei Ventura è la summa degli spazi in cui privilegio e potere si asserragliano: collocata al centro di una pianura colonizzata da altissime graminacee e abitata da “selvaggi” invisibili e presunti antropofagi, ospita nei sotterranei una folla di servitori che di giorno obbediscono agli ordini e di notte esercitano un’autorità spietata sui bambini di casa. Nella torre, appartata ma ben visibile, è rinchiuso il medico Adriano, sorvegliato da custodi quasi bestiali che non riescono a impedirgli di gridare le sue verità. E ai piani superiori abitano i sette membri adulti della famiglia e i trentatrè bambini e adolescenti da loro generati, ai quali, però, diverse zone dell’edificio sono interdette, perchè il potere degli adulti sta, oltre che nella confezione di dogmi da accettare incondizionatamente, anche negli infiniti limiti imposti alle attività e ai corpi dei più giovani.
E’ della distruzione di questi limiti o del loro sovvertimento che parla il romanzo, raccontandoci della partenza di padroni e servi verso un qualche luogo imprecisato e meraviglioso, allo scopo di rompere con una gita la monotonia dei giorni estivi e per sfuggire al sotterraneo timore che bambini e ragazzi, di cui viene riconosciuta e dichiarata l’eversiva, innata alterità, stiano progettando la rivolta. E, nella casa temporaneamente abbandonata dai “grandi”, i cugini prendono il potere, dispiegando gli intrighi e le intimità incestuose che già li tenevano segretamente impegnati e giocando fino in fondo al loro gioco preferito, quello di una realtà alternativa chiamata “La Marchesa uscì alle Cinque”.
Lasciati a sè stessi, si appropriano della casa, la esplorano, la trasformano, demoliscono il recinto, stabiliscono alleanze con gli “antropofagi”, fanno conoscenza con Adriano che il figlio Wenceslao - bambino costretto dal capriccio della madre a indossare i panni femminili di una poupée diabolique - ha liberato. L’impeto di un’infanzia perversa e polimorfa che gli adulti non sono ancora riusciti a piegare dà corpo a tutti i fantasmi del desiderio e rompe il “fitto velo” teso sulla realtà (“Siamo Ventura, Wenceslao, perciò non dobbiamo dimenticare che l’apparenza è l’unica cosa che non inganna”), che neppure il ritorno di genitori e zii sarà capace di ricomporre. Ma, mentre  i “grandi” affermano di essere rimasti lontani solo per un giorno e  i bambini parlano di un’assenza durata un anno, un nuovo velo, quello imposto dalla nevicata di pappi espulsi dalle erbe di pianura, è pronto ad avvolgere come un confortevole sudario la casa, dove ormai solo le figure degli affreschi sembrano vive. Il lenzuolo di pappi ha dunque livellato le differenze tra padroni e servi, tra potenti e diseredati, tra adulti e bambini? No, le cose non stanno così: un’elite minuscola e ancora più chiusa è sfuggita alla coltre bianca e, sostenuta e legittimata da potenti stranieri venuti di lontano, esclude tutti gli altri…
Grandioso, scintillante, complesso eppure leggibilissimo (l’autore lo paragonava apertamente a un romanzo di avventura), animato dalla dimensione ludica, allusiva, parodistica e ironica tipica di gran parte dell’opera di Donoso, “Casa di Campagna” non si limita ad avvincere, a sedurre con immagini ora oscure ora luminose, a proporre un gioco fatto di singolari strategie, di innumerevoli significati e travestimenti carnevaleschi, ma mette in questione la natura stessa della narrativa.
Il racconto, infatti, è attraversato dalla voce di un narratore onnipresente e onnipotente che crea un universo e allo stesso tempo ci spiega metodi e procedimenti della sua creazione, decidendo di rendersi visibile come Cervantes quando, all’inizio di Don Chisciotte, si rivolge direttamente al desocupado lector, quasi a mettere in chiaro che la storia raccontata è un prodotto dell’immaginazione ed esiste solo nella sua mente. Ma presto ci rendiamo conto che l’autore–narratore, così pronto a esporsi, è anche lui è pura finzione, un personaggio tra i tanti.
Cosciente, come il piccolo Wenceslao travestito da bambina, del fatto che dietro una maschera c’è sempre un’altra maschera, il “vero” narratore continua perciò a nascondersi, a travestirsi, a imporre l’illusione e a suggerire che solo attraverso di essa si può davvero leggere la realtà. Una cosa che tutti i bambini, e non solo i piccoli Ventura, hanno sempre saputo.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2009