La Marchesa uscì alle Cinque
Che il Cile sia “terra di poeti”, più che di grandi narratori, è un luogo comune assolutamente vero e a smentirlo non basta l’esistenza dei molti buoni scrittori del passato e del presente, di outsiders geniali come Pedro Lemebel o di astuti fabbricanti di best sellers come Sepúlveda e la Allende. Ci sono tuttavia almeno due eccezioni, due nomi che svettano su tutti gli altri: quelli di José Donoso (1924-1996) e di Roberto Bolaño (1953-2003), autori differentissimi e appartenenti a generazioni diverse, ma entrambi collocabili senza esitazioni tra i più grandi romanzieri di lingua spagnola del novecento.
L’immenso successo postumo del secondo negli
Stati Uniti, complice il parere entusiasta di Susan Sontag (ma anche l’equivoco
di una fantasiosa e improvvisata mitologia mediatica che lo ha presentato ai
lettori americani come un nuovo Borges drogato e “maledetto”, vittima della
dittatura di Pinochet), è stato una delle sorprese di questi ultimi anni, tanto
che, tradotto in tutto il mondo nonchè amatissimo da un pubblico vasto e
appassionato, oggi è certo più noto e letto di Donoso, del quale aveva detto a
suo tempo: - Ha scritto alcune opere notevoli, il resto non è granché. Un
giudizio piuttosto severo, che conferma i difficili rapporti di Bolaño con
l’ambiente letterario del suo paese di origine e che in fondo si potrebbe
estendere a chiunque, incluso lui stesso, se si pensa a inediti non memorabili
come quelli che vanno apparendo in questi anni: l’ultimo è El tercer Reich,
romanzo giovanile del quale nemmeno Jorge Herralde, il primo a credere
nell’autore cileno e a pubblicarlo, riesce a tessere un pieno elogio.
Qualunque cosa ne abbia detto Bolaño, l’opera di
Donoso (una dozzina di romanzi, molti racconti, un bel libro di memorie) è di
straordinaria qualità, anche se non sempre lo scrittore ha maneggiato con la
medesima fermezza tutti i registri narrativi che gli piaceva sperimentare,
cambiando stile, voce, tecnica, strategie, e facendo di questi mutamenti e
trasformazioni una precisa scelta estetica. Inoltre Donoso è stato il primo
romanziere cileno a riscuotere un autentico successo internazionale negli anni
del cosiddetto Boom latinoamericano, del quale viene considerato un
esponente di primo piano, anche se in realtà le sue opere sembrano puntare in
un’altra direzione e, come sottolinea il critico argentino Claudio Zeiger, si
avvicinano più “ai belli e deformi di Mujica Lainez, ai divi e alle dive di
Puig, al cinema di Ripstein e in parte di Almodóvar, che ai testi canonici del boom”.
Nonostante tutto questo, e pur potendo aspirare
già in vita alla statura di “classico moderno”, poco prima di morire Donoso
avrebbe detto all’amico e allievo Carlos Franz: “Tra dieci anni non mi leggerà
più nessuno”. Una malinconica profezia che, per quanto riguarda i lettori
italiani, è diventata realtà sin troppo in fretta. L’ultima edizione nella
nostra lingua del suo magnifico “L’osceno uccello della notte” (1970)
risale infatti al 2003, mentre già da tempo l’abisso del fuori catalogo ha
inghiottito altri titoli donosiani usciti presso editori come Feltrinelli,
Garzanti, Bompiani, Frassinelli. E altri suoi testi importanti, come Donde
van a morir los elefantes o il postumo, tenebrosissimo El Mocho, non
sono mai stati presi in considerazione dall’editoria italiana.
Una
cancellazione così radicale trasforma dunque in un piccolo avvenimento la scelta dell’editore
Cavallo di Ferro di riproporre “Casa di campagna”, romanzo considerato la obra
maestra di Donoso, in una nuova traduzione di Cinzia Buffa che segue a
quella di Angelo Morino per la prima edizione italiana (“Marulanda: la dimora
di campagna”, Feltrinelli 1985). Un repêchage eccellente, in linea con la nuova
attenzione che in Europa come negli Stati Uniti circonda la letteratura di
lingua spagnola (e che, con la debita lentezza, comincia a risvegliarsi anche
in Italia), ma soprattutto il segno che la memoria del Boom, inteso come
moda letteraria e fenomeno di mercato, è impallidita quanto basta perchè opere
e autori vengano finalmente riletti in altra luce. E se oggi alcuni testi
possono apparirci come semplici gadget anni ’70, altri sembrano misteriosamente
migliorare col tempo e si offrono a una sorprendente pluralità di letture.
“Casa di campagna”, apparso per la prima volta
nel 1978 e vincitore dello spagnolo Premio de la Crítica, ci appare subito
come uno di questi ultimi: un romanzo
labirintico e straordinariamente avvincente che a suo tempo è stato
letto come un’allegoria del colpo di stato del 1973, elusiva e piena di suggestioni.
I potenti Ventura, padroni di inesauribili miniere d’oro, rappresenterebbero
l’oligarchia cilena, mentre il medico Adriano Gomara, prima cooptato dalla
famiglia e poi rinchiuso perchè considerato pazzo, sarebbe un “doppio” di
Salvador Allende. E a Marulanda, casa di campagna circondata da un recinto che
include le diciottomila lance di ferro portate via agli indigeni in tempi
remoti, toccherebbe il compito di rappresentare un’intera nazione, il Cile. Ma
anche se è stato l’autore stesso a confessare che l’annuncio del colpo di stato
lo aveva spinto ad abbandonare un altro romanzo (Cola de lagartija, mai
concluso e ritrovato fra le sue carte dalla figlia Pilar) per dedicarsi alla
stesura di Casa de campo, una lettura del genere risulterebbe gravemente
riduttiva.
Non siamo, infatti, di fronte a un semplice
romanzo “a chiave” legato in modo inequivocabile a un contesto
storico-politico, ma a una narrazione ricchissima e suscettibile di molte e
diverse interpretazioni, in cui si possono riconoscere gli echi di altre opere
letterarie, da “il Signore delle Mosche” sino a un’ “Alice nel paese delle
Meraviglie” rivista in chiave gotica; ma
“Casa di Campagna” contiene soprattutto i temi più cari allo scrittore, quelli
che attraversano tutta la sua opera: la decadenza di una borghesia che, osserva
Donoso, “crea un codice chiuso dettando le norme del buongusto, la morale, il
male e il bene, le leggi”; l’aspro confronto tra ricchi e poveri, tra servi e
padroni; la discesa nella follia, che è allo stesso tempo simbolo del declino
di una casta e del rifiuto di riconoscerlo; la predilezione per il
travestimento, la metamorfosi, la maschera, che alcuni collegano alla decisione
dello scrittore di non rivelare (anzi di non vivere) la propria omosessualità,
affiorata solo in anni recenti dai diari ora in possesso di un’università
americana; e infine la presenza del mostruoso, del grottesco, del corpo che si
fa riflesso di spettri e ombre interiori, “tutti i fantasmi di quel Cile
reazionario, residuale”, tra i quali Donoso era cresciuto e che gli ripugnavano
e lo attiravano allo stesso tempo.
“Casa di Campagna” è insomma un concentrato
della letteratura donosiana e riflette in un certo senso l’avverarsi
dell’inconscia profezia sulla tremenda frattura del 1973 contenuta nei primi
quattro romanzi scritti prima del lungo soggiorno spagnolo: Coronación
(1957) , Este Domingo (1966), El lugar sin límites (1966 ) e
soprattutto El obsceno pájaro de la noche (1970), imperniati sul
contrasto violento tra un luogo chiuso (un palazzo, un bordello, un convento,
una casa di famiglia) in cui regna un ordine sinistro, consolidato attraverso
riti, miti e gerarchie, e un esterno per definizione minaccioso, che preme alle
porte e cerca di spezzare recinti e barriere. L’immensa magione campestre dei
Ventura è la summa degli spazi in cui privilegio e potere si asserragliano:
collocata al centro di una pianura colonizzata da altissime graminacee e
abitata da “selvaggi” invisibili e presunti antropofagi, ospita nei sotterranei
una folla di servitori che di giorno obbediscono agli ordini e di notte
esercitano un’autorità spietata sui bambini di casa. Nella torre, appartata ma
ben visibile, è rinchiuso il medico Adriano, sorvegliato da custodi quasi
bestiali che non riescono a impedirgli di gridare le sue verità. E ai piani
superiori abitano i sette membri adulti della famiglia e i trentatrè bambini e
adolescenti da loro generati, ai quali, però, diverse zone dell’edificio sono
interdette, perchè il potere degli adulti sta, oltre che nella confezione di dogmi
da accettare incondizionatamente, anche negli infiniti limiti imposti alle
attività e ai corpi dei più giovani.
E’ della distruzione di questi limiti o del loro
sovvertimento che parla il romanzo, raccontandoci della partenza di padroni e
servi verso un qualche luogo imprecisato e meraviglioso, allo scopo di rompere
con una gita la monotonia dei giorni estivi e per sfuggire al sotterraneo
timore che bambini e ragazzi, di cui viene riconosciuta e dichiarata
l’eversiva, innata alterità, stiano progettando la rivolta. E, nella casa
temporaneamente abbandonata dai “grandi”, i cugini prendono il potere,
dispiegando gli intrighi e le intimità incestuose che già li tenevano
segretamente impegnati e giocando fino in fondo al loro gioco preferito, quello
di una realtà alternativa chiamata “La Marchesa uscì alle Cinque”.
Lasciati a sè stessi, si appropriano della casa,
la esplorano, la trasformano, demoliscono il recinto, stabiliscono alleanze con
gli “antropofagi”, fanno conoscenza con Adriano che il figlio Wenceslao -
bambino costretto dal capriccio della madre a indossare i panni femminili di
una poupée diabolique - ha liberato. L’impeto di un’infanzia perversa e
polimorfa che gli adulti non sono ancora riusciti a piegare dà corpo a tutti i
fantasmi del desiderio e rompe il “fitto velo” teso sulla realtà (“Siamo
Ventura, Wenceslao, perciò non dobbiamo dimenticare che l’apparenza è l’unica
cosa che non inganna”), che neppure il ritorno di genitori e zii sarà capace di
ricomporre. Ma, mentre i “grandi”
affermano di essere rimasti lontani solo per un giorno e i bambini parlano di un’assenza durata un
anno, un nuovo velo, quello imposto dalla nevicata di pappi espulsi dalle erbe
di pianura, è pronto ad avvolgere come un confortevole sudario la casa, dove
ormai solo le figure degli affreschi sembrano vive. Il lenzuolo di pappi ha dunque livellato le differenze tra
padroni e servi, tra potenti e diseredati, tra adulti e bambini? No, le cose
non stanno così: un’elite minuscola e ancora più chiusa è sfuggita alla coltre
bianca e, sostenuta e legittimata da potenti stranieri venuti di lontano,
esclude tutti gli altri…
Grandioso, scintillante, complesso eppure
leggibilissimo (l’autore lo paragonava apertamente a un romanzo di avventura),
animato dalla dimensione ludica, allusiva, parodistica e ironica tipica di gran
parte dell’opera di Donoso, “Casa di Campagna” non si limita ad avvincere, a
sedurre con immagini ora oscure ora luminose, a proporre un gioco fatto di singolari strategie, di innumerevoli
significati e travestimenti carnevaleschi, ma mette in questione la natura
stessa della narrativa.
Il racconto, infatti, è attraversato dalla voce
di un narratore onnipresente e onnipotente che crea un universo e allo stesso
tempo ci spiega metodi e procedimenti della sua creazione, decidendo di
rendersi visibile come Cervantes quando, all’inizio di Don Chisciotte, si
rivolge direttamente al desocupado lector, quasi a mettere in chiaro che
la storia raccontata è un prodotto dell’immaginazione ed esiste solo nella sua
mente. Ma presto ci rendiamo conto che l’autore–narratore, così pronto a
esporsi, è anche lui è pura finzione, un personaggio tra i tanti.
Cosciente, come il piccolo Wenceslao travestito
da bambina, del fatto che dietro una maschera c’è sempre un’altra maschera, il
“vero” narratore continua perciò a nascondersi, a travestirsi, a imporre
l’illusione e a suggerire che solo attraverso di essa si può davvero leggere la
realtà. Una cosa che tutti i bambini, e non solo i piccoli Ventura, hanno
sempre saputo.
Questo articolo
è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2009