Antonio Dal Masetto Jorge Ibargüengoitia
La chiaroveggenza della letteratura
Dice Mempo Giardinelli, romanziere argentino e
autore di un breve saggio sulla letteratura policial y detectivesca, che
il poliziesco e soprattutto il noir latinoamericani possiedono più di
altri alcune caratteristiche fondamentali: per esempio sono totalmente immersi
in una realtà riconoscibile, “se ne fanno carico e la discutono liberamente”,
“non rappresentano mai la polizia come garante dell’ordine e della giustizia,
ma, al contrario, la considerano motore dell’ingiustizia e dell’abuso di
potere”, e, soprattutto, includono una forte “critica di costume o dei sistemi
sociali".
Alle osservazioni di
Giardinelli si potrebbe aggiungere che oggi la letteratura noir nata in
America latina è davvero audace ed eterodossa e che attraverso continue
contaminazioni ha fatto saltare, quanto e più di quella nordamericana ed
europea, ciò che restava delle regole
del genere, stravolgendolo ma anche esplorandone tutte le possibilità e mostrando grande originalità formale nella
costruzione delle trame.
Si tratti
di grandi autori come l’argentino Roberto Piglia (il suo magnifico Soldi
bruciati è stato tradotto da Pino Cacucci per Guanda) che del noir
hanno spesso assunto modi e forme, di collaudati giallisti come il cubano
Leonardo Padura Fuentes, creatore del malinconico detective Mario Conde, o di
esponenti del “realismo sporco” come il messicano Guillermo Fadanelli,
per tutti vale la constatazione di Sergio Gómez, curatore insieme ad Alberto
Fuguet dell’ormai celebre antologia McOndo:
“In America Latina, oggi, non c’è nessun altro tipo di romanzo che si azzardi a
riabilitare altrettanto gloriosamente i temi di denuncia, e che rappresenti con
coraggio tutte le possibili vergogne del nostro continente”.
E’ forse per questo poderoso radicamento nella
crudeltà estrema di un passato fin troppo prossimo e nei complessi scenari post
apocalittici del presente che il noir latinoamericano risulta così
convincente, così autentico, così feroce, sia che racconti di marginalità
urbana, di detectives disillusi, di impunità poliziesca o di fredda violenza
economica. Ed è suo merito, inoltre, un minuzioso lavoro sul linguaggio, più
che mai necessario agli scrittori di un continente in cui la lingua corre due
rischi paralleli: da una parte quello del localismo esasperato e dell’esotismo
di maniera, e dall’altra quello della normalizzazione e standardizzazione
inevitabilmente collegate alle necessità del mercato editoriale.
Di tutto questo il lettore italiano potrà
rendersi conto una volta di più, se sarà abbastanza curioso da avvicinarsi ad
alcuni romanzi latinoamericani come
lo straordinario “E’ sempre difficile
tornare a casa” (Einaudi, traduzione di Laura Pariani) di Antonio Dal
Masetto, argentino di origine italiana - nato a Intra nel 1938, emigrato in
Argentina da ragazzino - , del quale era già apparso nel 2002 “Strani tipi sotto casa” (Le Lettere),
un magistrale romanzo breve ambientato nella Buenos Aires del 1978.
In questo suo romanzo del ‘92 Dal Masetto si
conferma come uno degli autori argentini più importanti della sua generazione,
capace di rappresentare con un linguaggio esatto, apparentemente spoglio e in
realtà lavoratissimo, quella che si usa chiamare “la banalità del male”. La
trama di “E’ sempre difficile tornare
a casa” è semplice: quattro uomini diversi per storia e formazione, ma
identicamente delusi e alle corde, arrivano a Bosque, un lindo paesetto non
lontano da Buenos Aires, per rapinare la banca locale. E’ in corso una festa
con tanto di discorsi, luminarie e burle cattive ai danni dello scemo del
paese, e i quattro bevono, osservano, aspettano (uno vive addirittura una
inattesa avventura erotica con una ragazza “bellissima e inutile”) e pensano
alla mattina dopo, quella che dovrà finalmente cambiare le loro vite incerte e
mettere fine ai loro fallimenti. Ma qualcosa non funziona, la rapina va male e
un istante dopo si scatena una immensa caccia all’uomo che dura fino al mattino
seguente e coinvolge tutti gli abitanti del luogo, preti e massaie, ricconi e
ragazzini, disintegrandone il culto delle convenienze e l’apparente, apatica
placidità.
Fuggendo e nascondendosi di casa in casa, i
quattro rapinatori braccati scoprono a ogni tappa le nefandezze nascoste e
quotidiane degli abitanti di Bosque, dove i bar, la piazza, l’unico albergo, le
casette basse, le poche auto offrono una immagine di serenità suburbana e di
quieto benessere, pronta a frantumarsi
per mostrare un luogo senza redenzione. La rapina fallita equivale allora al
gesto che, rivoltando un sasso, svela un insospettato brulicare di insetti:
perché il segreto genius loci di Bosque è l’incontenibile ferocia della
piccola borghesia benpensante, pronta a consumare una sacrificio umano che
cancelli la perturbante alterità dei criminali venuti da fuori, dal mondo grande
che esiste oltre il cerchio delle piccole abitudini e degli interessi paesani.
Libro corale fatto dell’intreccio di mille
personaggi e destini, a ciascuno dei quali l’autore sa dare una voce
riconoscibile, “E’ sempre difficile
tornare a casa” ha come un unico vero protagonista il paese stesso (al
quale nel 2001 Dal Masetto ha dedicato un romanzo intitolato per l’appunto Bosque,
altrettanto interessante e ancor più desolato), in apparenza così remoto
eppure, ha ragione Laura Pariani,
idealmente collocato “a poca distanza dal nostro ‘profondo nord’”.
Esattamente come Dal Masetto e come molti altri autori latinoamericani che
hanno costeggiato o sfiorato il giallo o il noir, utilizzandone le tinte forti per dipingere
quadri complessi e affascinanti, anche Jorge Ibargüengoitia rinuncia a
qualsiasi parvenza di detection e si concentra sul “come” e sul “perché”
di un crimine nel suo “Le morte”(la
precedente edizione Einaudi, uscita molti anni fa con un altro titolo, “Il caso delle donne morte”, era ormai
introvabile) pubblicato da Sellerio, che ha in catalogo anche “Due delitti” e “I lampi d’agosto”, due delle opere
più significative di questo scrittore, drammaturgo e giornalista messicano
scomparso a cinquantacinque anni nel 1983, in un incidente aereo. In “Le morte” il lettore si
troverà di fronte a una totale immersione nel noir più profondo, nato da un autentico fatto di cronaca
(l’epigrafe del libro annuncia:”Alcuni fatti qui narrati sono reali. Tutti i
personaggi sono immaginari”), e cioè dalla morte per maltrattamenti di alcune prostitute rinchiuse
in un bordello di campagna. Una storia che si conclude con processi e condanne, ma solo per caso, grazie alla
goffaggine di un tentato omicidio compiuto per vendicare un amore tradito che
porta alla luce una vicenda ben più complessa e tragica, facendo riaffiorare
cadaveri abbandonati nei burroni o inghiottiti da sepolture approssimative e
clandestine.
Complice di Serafina e Arcangela Baladro, le due
sorelle che governano con mano di ferro il bordello-lager, è il capitano
Bedoya, amante di Serafina, torturatore efficiente, becchino impersonale
nascosto dietro un paio di occhiali neri; tuttavia in questa storia di violenza
contro le donne, organizzata e pilotata da altre donne in obbedienza a leggi e
desideri maschili, la sua figura quasi stereotipata di macho e di
poliziotto corrotto non è quella di un protagonista. E il ruolo non tocca
nemmeno a Serafina e Arcangela, avvedute mercantesse di carne e sagge
amministratrici di una fortuna accumulata grazie alle copule altrui. Anche qui,
infatti, a fare da protagonista è il luogo in cui i crimini
vengono consumati: il bordello, universo concentrazionario che riproduce e
miniaturizza, tra mura e finestre sbarrate, un mondo esterno violento e
totalmente mercificato, in cui la mostruosità non è tanto un destino quanto un
obbligo ”naturale” che si assolve senza pensarci.
Narrata in tono assolutamente oggettivo, in un
continuo va e vieni di flashback e di fredde descrizioni orrorifiche, la storia
finisce per apparirci come una crudelissima “natura morta con messicani” che
rivela in controluce il filo di una terribile ironia, strumento che
l’autore sapeva maneggiare assai bene e
che è la cifra distintiva della sua opera. Ma la cosa più inquietante, per i
lettori di oggi, è il fatto che il romanzo sembri inevitabilmente rimandare a
vicende di molto posteriori alla sua stesura, e cioè alle muertas di
Ciudad Juárez, le centinaia di donne violentate, mutilate e uccise, i cui corpi
sono stati abbandonati nel deserto pietroso attorno alla città.
Viene da pensare, allora, che avesse ragione lo
scrittore argentino Eloy Martinez quando in un suo articolo sul quotidiano La
Nación parla di inconscia “chiaroveggenza della letteratura”. O forse va
semplicemente ricordato che ieri come oggi la violenza contro le donne resta,
in America Latina come altrove, una piaga endemica che produce ogni anno
migliaia di vittime, muertas cui nessuno fa caso e delle quali
Ibargüengoitia, certo al di là delle sue stesse intenzioni, finisce per
diventare lo spassionato cantore.
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nel luglio del 2005