sabato 7 giugno 2014

da leggere: Valeria Luiselli


Valeria Luiselli






Una storia di fantasmi (oppure no) 

Valeria Luiselli è messicana, non ha ancora trent’anni, è cresciuta in giro per il mondo al seguito di un padre diplomatico e vive oggi a New York, dove Granta Books ha pubblicato col titolo di Faces in the grow il suo romanzo d’esordio, Los ingravidos, uscito in Messico nel 2011 presso Sexto Piso e tradotto anche in Italia grazie a La Nuova Frontiera (Volti nella Folla). Accompagnata in copertina dalle brevi raccomandazioni di Enrique Vila-Matas e di Francisco Goldmann – romanziere e saggista tradotto anche in Italia, fondamentale tramite tra le culture del Nord e del Sud America, nonché collaboratore storico del New Yorker e del New York Times e artefice del successo di Bolaño negli USA, visto che fu lui a suggerirne il nome alla casa editrice New Directions –, la Luiselli appartiene a quella che il critico Álvaro Enrigue ha definito, sulla rivista Chilango, la Generación Atari, cedendo alla comoda usanza di riunire sotto un’etichetta generazionale autori diversissimi fra loro come Daniela Tarazona, Brenda Lozano, Rafael Lemus o Emiliano Monge.

Oltre al puro dato anagrafico, però, gli Atari sembrano avere qualcos’altro in comune: non scrivono sul Messico dei narco, tristissima realtà ma anche moda editoriale del momento. In un polemico articolo sulla narcoliteratura, apparso sulla rivista Nexos, Valeria Luiselli si chiede: “nella misura in cui il paese è nelle mani del narcotraffico e di un governo che non si assume la responsabilità delle sue pessime scelte, non ci resterebbe altro che definirci in base all’immagine del Messico che meglio vende in Messico e nel mondo? O stiamo semplicemente assumendo il ruolo che ci è stato assegnato nel sorteggio identitario del gran Consesso delle Nazioni?”.

Il suo è dunque un romanzo che parla d’altro, che ignora le trame sanguinose della narconovela e narra di una giovane scrittrice che vive con marito e due bambini (uno piccolissimo, uno “medio” capace di reinventare il linguaggio con maestria da letterato) a Città del Messico, e cerca di scrivere un romanzo abbastanza “silenzioso” e di “scarso respiro” da non entrare in conflitto con i piccoli che le divorano le giornate e le impongono di lavorare come in segreto, e solo durante la notte, a una storia che è quasi la sua, quella cioè dei suoi giorni newyorkesi di ragazza: incontri, sesso, amicizie, il sistematico furto di oggetti privi di valore, la vita brada e senza peso, il lavoro in una piccola casa editrice… Raccontate attraverso frammenti più o meno brevi, le due vite della protagonista sembrano parlarsi, procedere in parallelo attraverso i molti spazi vuoti, i “buchi” di una narrazione che vuole, e lo dichiara, essere porosa e lieve “come il cuore di un neonato”.

Fino a quando la ragazza di New York, in cerca del “nuovo Bolaño” reclamato dal suo editore, si imbatte nelle carte di Gilberto Owen (1904-1952), poeta messicano che come lei abitava ad Harlem, e che all’Harlem Renaissance partecipò intensamente negli anni ’20. Un poeta poco noto ai suoi stessi compatrioti, almeno fino alla pubblicazione della sua opera omnia nel 1979, ma sicuramente uno dei più grandi del ’900 messicano, membro del gruppo dei Contemporaneos, traduttore di Emily Dickinson, eccentrico e devastato dall’alcool, diplomatico punito per la sua adesione al marxismo. In poche parole, uno di coloro che, come il peruviano Martín Adán, hanno presieduto alla nascita delle avanguardie letterarie latinoamericane, della cui importanza – anzi, della cui esistenza – anche i critici italiani più avveduti sembrano all’oscuro.

Mentre Owen entra nel testo e se ne impadronisce, diventando un personaggio a pieno titolo, del quale, al di là di qualsiasi dato biografico, ci occorre sapere solo quello che ci viene narrato, Volti nella folla diventa pian piano una storia di fantasmi. Ammaliata da quella figura bizzarra che crede di aver intravisto nel metrò, la ragazza inventa una presunta traduzione illustre dei versi di Owen (ma è lei a tradurre e a confezionare con un amico un falso manoscritto) che piace al suo editore, e poi, sopraffatta dalla bugia e dall’inquietudine, torna in Messico, a vivere un’altra vita. Non sa di essere anche lei un fantasma: perché Owen l’ha a sua volta intravista, e ce lo racconta insieme alle avventure metropolitane con amici come García Lorca (a New York in quegli stessi anni), al matrimonio fallito e ai figli, al proprio corpo che ingrassa a dismisura. Finchè tra loro sembra stabilirsi un nuovo contatto, mentre il mondo intero e i muri e la città si scuotono nello spasimo del terremoto…

Accolto con entusiasmo dalla critica latinoamericana e spagnola, Volti nella folla è un romanzo cui bisogna perdonare la sovrabbondanza metaletteraria, ma che allo stesso tempo segna l’affacciarsi di un talento autentico, di una bella scrittura che la traduzione di Elisa Tramontin è riuscita in buona parte a rendere, di una leggerezza non priva di ironia e, infine, di una tendenza nuova delle giovani lettere messicane e latinoamericane, che invece di “uccidere i padri” sembrano confidare in essi, ma senza complessi né cieca devozione; così il romanzo si allontana dalla confusione postmoderna per stabilire un nesso con il passato, con le avanguardie di cui Owen era espressione ma anche con le prove migliori e più audaci della cosiddetta generazione del ’50, che in Messico ha avuto esiti straordinari. Josè Emilio Pacheco, Sergio Pitol, Margo Glantz con la sua immensa cultura e i suoi testi spezzati e frammentari, e soprattutto Josefina Vicens (1911-1988), autrice di due soli romanzi che tuttavia rappresentano un punto di riferimento fondamentale per la cultura messicana, vengono indubbiamente tenuti presenti da un’autrice sicura dei suoi mezzi, anche se non ancora del tutto capace di calibrarli a dovere. E il tema dell’identità, così recisamente rifiutato dalla giovane scrittrice, torna dunque ad affacciarsi, ma in tutt’altro modo, attraverso l’appartenenza a una individuale “patria letteraria” che prescinde da qualsiasi confine, tempo e spazio.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nell’aprile del 2012