I Soprano a Buenos Aires
Quando il suo romanzo Chau papá vinse il premio “Dashiell Hammett” assegnato
dalla Semana negra di Gijón (il più importante festival europeo dedicato al noir
e al poliziesco), Juan Damonte aveva cinquant’anni e di lui si sapeva ben poco,
a parte il fatto che era nato a Buenos Aires nel 1945, viveva in Messico da molti
anni e apparteneva a una famiglia il cui ruolo nella storia argentina non è stato
irrilevante. Suo padre, Raúl Damonte Taborda, era un politico e giornalista di spicco,
antiperonista e antifascista costretto a un lungo esilio in Uruguay e Messico, nonché
direttore del quotidiano Crítica, arrivato negli anni d’oro alle seicentomila
copie e infine acquisito dal governo, quando il ministro Miranda ne comprò le azioni
per regalarle a Eva Perón.
A fondarlo nel 1913 era stato il leggendario suocero di Damonte, Natalio Félix
Botana, le cui stravaganze e i cui amori erano argomento di infinite chiacchiere
e che aveva sposato una donna non meno leggendaria, ovvero Salvadora Medina Onrubia,
drammaturga e scrittrice, anarchica militante incarcerata dal generale Uriburu.
E su un altro giornale di famiglia, Tribuna Popular (creato da Damonte Taborda
nel ’55), aveva debuttato come vignettista il fratello maggiore di Juan, Raúl detto
Copi, autore di comics poetici e stralunati, ma anche scrittore e teatrante brillantissimo
e audace, che dal 1962 fino alla morte avvenuta nel 1987 visse e lavorò a Parigi,
prendendo infine la cittadinanza francese (la provocatoria esibizione della propria
omosessualità e il dileggio riservato all’icona nazionale, Evita, erano bastati,
del resto, a bandirlo dall’Argentina degli anni ’70 e ’80).
Juan Damonte, morto nel 2005 a poco più di sessant’anni, con una storia del
genere alle spalle non poteva essere una persona comune: solo che in lui la vena
eccentrica e geniale della famiglia aveva preso altra forma, quella di una marginalità
troppo insistita e radicale per dipendere solo dal caso o dalla sorte. Povero, coltissimo,
alcolizzato, dedito a mestieri saltuari, scriveva su una vecchia portatile che portava
sempre con sé per poi dimenticare in giro pagine e capitoli, come un Pollicino sbronzo
che si lasci dietro preziose briciole di scrittura. E, tutto sommato, è quasi un
miracolo che sia riuscito a terminare, a non perdere, a veder pubblicata e premiata
questa sua unica opera che, uscita da tempo in Francia, Spagna e Germania, arriva
nelle nostre librerie per merito dell’editore romano Elliot e del traduttore Raul
Schenardi. Una fortuna per i lettori, perché Ciao papà è un romanzo che una
volta letto è difficile dimenticare e che cultori del noir come Paco Taibo, Rolo
Diéz e Juan Sasturain considerano una delle migliori novelas negras argentine,
e non solo.
Il protagonista, Carlos Tomassini, ha trent’anni e appartiene a una famiglia
di mafiosi italiani con ramificate parentele: se lui è un tipico malevo che
ha rubato la sua prima bici a cinque anni e ne ha passato quattro in galera per
una rapina andata male, il cugino Abel è un esteta gay, l’altro cugino Tato un montonero
che organizza assalti alle caserme, e il cuginetto León David, studente per metà
ebreo, è un militante comunista. E poi ci sono lo Zio, “padrino” che vuole affidare
a Carlos il riciclo di denaro sporco, e il generale Della Penna, altro parente che
coordina la feroce attività dei paramilitari… Che si ingegnino a prosperare o a
sopravvivere, che cerchino di rovesciare il regime o di assecondarlo, tutti devono
fare i conti con la dittatura e con la sua parossistica violenza, tutti girano armati
e attingono al fiume di cocaina e alcol che scorre in città. Ma nessuno lo fa quanto
Carlos, incapace di stare in piedi se non “tirando”: perseguitato dalla gelosia
per la stupenda ex moglie, dalla polizia, dal ricordo delle torture patite in prigione,
dalla “famiglia” che lo vuole obbediente alle sue regole, Tomassini è una scheggia
impazzita e mortale che schizza da un capo all’altro di Buenos Aires.
Dalla casa dello Zio (la descrizione del pranzo di compleanno sembra una puntata
dei Soprano) agli uffici del generale, dalla scuola dove ha studiato (e dove sfonda
il cranio a un prete pedofilo) all’elegante appartamento di Abel, dalla discarica
in cui si gettano i corpi atrocemente seviziati degli oppositori fino al rifugio
del vecchio Nene, mafioso di rango e suo protettore, Carlos disegna un percorso
che a tratti ricorda la crudeltà spassionata del Brother di Kitano, mentre
i cadaveri si ammucchiano e la ricerca del desaparecido León David diventa una guerra.
Scritto in una lingua rapida, gergale, di strada, un lunfardo infarcito
di turpiloquio e costellato di espressioni in calabrese o in un italiano corrotto
(ovvero il linguaggio dei nostri emigranti, il cocoliche), Ciao papà
parte come semplice “romanzo criminale” per trasformarsi in formidabile “romanzo
della dittatura” che evidenzia il nesso tra violenze solo apparentemente diverse,
ma in realtà collegate e interdipendenti al punto da essere indistinguibili, in
un intreccio fra politica, corruzione e criminalità, inasprito dagli inimmaginabili
succhi “neri” della dittatura e da tocchi di un umorismo distaccato quanto truce.
E un’agnizione finale, acme di un crescendo frenetico e sanguinoso, conclude degnamente
la storia di un antieroe destinato alla sconfitta, che si muove all’interno di un
paesaggio urbano il cui cuore è la discarica-cimitero governata da un ex pugile
suonato e dal suo cane, che balza lieve come un delfino sul mare di spazzatura.
Una visione oscura e apocalittica, e allo stesso tempo l’essenza di un noir
magistrale popolato di corpi “a perdere” e di immagini brucianti, un romanzo fuori
dagli schemi che sa farci respirare l’aria fetida della Buenos Aires di allora.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio 2010