José Emilio Pacheco Juan Pablo Villalobos |
Messico mobile, Messico immobile
Che lo stato di salute della letteratura messicana sia eccellente lo dicono
in molti, e confermare questo stato di grazia, che non data certo da oggi, due editori
italiani pubblicano contemporaneamente i romanzi brevi e bellissimi di due autori
appartenenti a generazioni diverse, che hanno scelto protagonisti alle soglie dell’adolescenza
per raccontare non solo il passaggio dall’infanzia all’età adulta, ma anche le trasformazioni
profonde del loro paese. L’apparizione di uno dei due romanzi rimedia, sia pure
in parte, all’ultradecennale disattenzione della nostra editoria nei confronti di
José Emilio Pacheco che, nato nel 1939 a Città del Messico, è allo stesso tempo
un maestro del racconto, un grande traduttore e saggista, un famoso giornalista
culturale e infine uno dei più importanti poeti contemporanei di lingua spagnola,
cui sono stati assegnati un numero infinito di premi (nel 2009 ha ottenuto sia il
Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana che il Cervantes). Fino a oggi si conoscevano
solo tre traduzioni italiane delle sue opere: Gli occhi dei pesci un’antologia
di poesie curata da Stefano Bernardinelli (Medusa 2006), la raccolta di racconti
Il principio del piacere (Giunti 1995) e il romanzo Battaglie nel deserto
(Giunti 1993). Ed è stato appunto quest’ultimo – rivisto e modificato dall’autore
– a venire ripreso da La Nuova Frontiera nella traduzione di Pino Cacucci: un libro
che dalla sua prima uscita, nel 1981, non ha mai smesso di essere ristampato, e
che nel 1987 è diventato un film con la sceneggiatura di uno scrittore illustre
come Vicente Leñero.
Il titolo si spiega con le piccole guerre tra “arabi e israeliani” combattute
per gioco nel cortile della scuola che il protagonista frequenta nel decaduto quartiere
Roma, pieno di arabi ed ebrei veri che si guardano in cagnesco, dove Carlitos conosce
Jim, nato negli USA e figlio di Mariana, straordinariamente bella e così diversa
dalla sua mamma borghese e bigotta. Di lei, che è l’amante di un pezzo grosso senza
scrupoli, Carlitos si innamora a prima vista: un amore autentico, anche se a provarlo
è un bambino che non ha ancora ben capito la meccanica del sesso (a svelargliela
è il suo confessore, prodigo di spiegazioni tecniche). Sarà per colpa di quell’amore,
dichiarato con sincerità, che Carlitos verrà esaminato da preti e psichiatri, costretto
a non rivedere mai più il volto luminoso di Mariana, e alla fine, dopo una rivelazione
terribile, a piangerlo.
La storia di una educazione sentimentale, dunque, narrata da un adulto che ricorda
con vivezza i propri sentimenti, il dolore e la rabbia, e ce li restituisce con
umorismo costante (il libro è divertente e malinconico insieme) e qualche tocco
lirico, in una prosa semplice, musicale e rapida che conferma la poetica della desolazione
e dell’ombra caratteristica di tutta l’opera di Pacheco, e che rimanda ad altri
suoi magistrali e crudeli racconti sull’infanzia e l’adolescenza, materia difficile
da trattare che lo scrittore messicano maneggia con una asciuttezza e una sapienza
esemplari.
Sì, Carlitos ricorda tutto, in primo luogo la sua città e il suo paese com’erano
negli ultimi anni ’40, quando gli Stati Uniti colonizzavano con fermezza l’economia,
la vita quotidiana e l’immaginario di un paese ancora non dimentico della guerra
cristera (la sollevazione cattolica degli anni ’20 contro l’anticlericale
Partido Revolucionario Institucional) e tuttavia ansiosa di modernizzarsi. Ma la
transizione da un Messico rurale e quasi arcaico a quello industriale e consumista
si accompagna alla corruzione e alla violenza di sempre, allora espresse dalla presidenza
di Miguel Alemán, il famoso “Mister Amigo” che presiedette
alla industrializzazione del paese, diede il voto alle donne, represse con pugno
di ferro le manifestazioni operaie e si circondò di politici che, come l’amante
di Mariana, si arricchivano grazie agli appalti governativi.
Tutti questi ricordi si incarnano in continui elenchi (a tratti quasi delle
filastrocche) di marche, nomi, oggetti, letture, canzoni, giochi, spettacoli e spazi
urbani destinati a sparire, mentre Città del Messico, già sordida e inquietante
nel racconto di Carlitos, sta per diventare una delle più impressionanti megalopoli
del pianeta. “La città di allora non c’è più. E neanche il paese in cui
ero nato, esiste più. Non resta viva neppure la memoria del Messico di quegli anni.
E a nessuno gliene importa granché: chi mai potrebbe provare nostalgia per quell’orrore”.
Così si chiude il romanzo, che afferma l’inutilità della memoria proprio mentre
fa di tutto per evocarla, disegnando il veloce ritratto di un amore impossibile
e, attraverso di esso, di una società sull’orlo di enormi cambiamenti e di nuovi
orrori. Quali e quanti, potremo misurarlo grazie al secondo romanzo in questione,
ossia Il bambino che collezionava parole di Juan Pablo Villalobos, nato nel
1973 a Guadalajara, che due anni fa ha pubblicato presso Anagrama questa sua opera
prima, subito tradotta in diverse lingue e che ora esce per Einaudi con un titolo
vagamente vezzoso e molto meno ironico di quello spagnolo, Fiesta en la madriguera.
Perché la madriguera è la tana, il covo, e la festa è quella sanguinosissima
del potere narco, che si perpetua attraverso continui sacrifici umani e che sostituisce
e condiziona quello politico.
Da tempo le stragi e le strategie dei narcos sono diventate letteratura, tanto che si parla sia di narconovela come genere, sia, scherzosamente, di un cartél di scrittori giovani e meno giovani che frequentano assiduamente il tema, e, dato che il livello della produzione spesso non è eccelso e lascia spazio a un sensazionalismo truculento, le polemiche non mancano. Ma Villalobos, che come tanti scrittori latinoamericani vive lontano dal suo paese (per l’esattezza a Barcellona, dove lavora in una impresa di e-commerce e si prepara a pubblicare il suo secondo romanzo), appartiene al côté più letterario della narconovela, quello che approda a una indubbia qualità di scrittura, come nel caso di Julián Herbert, il giustamente celebrato autore di Cocaina: manual de usuario e Canción de tumba, o dei norteños Carlos Velazquez, Luìs Humberto Crosthwaite e Antonio Ortuño, e soprattutto di Yuri Herrera, scrittore di tutto riguardo tradotto da non molto anche in Italia.
Proprio
a Herrera e al suo Trabajos del reino (La ballata del re di denari,
La Nuova Frontiera 2011), si potrebbe accostare questo piccolo libro di Villalobos
in cui la voce narrante è quella di un ragazzino, Tochtli, che vive recluso nel
palazzo-rifugio di suo padre, capo di un cartello di narcotrafficanti. In un mondo
fatto solo di uomini, anzi di machos, dove le donne non sono neppure mogli
e madri, ma oggetti d’uso e fuggevoli comparse, Tochtli ha un suo precettore personale
fissato con il Giappone e appassionatamente anti-capitalista, legge in continuazione
il dizionario, fa collezione di cappelli e possiede una formidabile familiarità
con la morte. E racconta, con inarrestabile umorismo, la sua percezione dell’universo
chiuso in cui vive e che assomiglia stranamente a quello truculento e stilizzato
delle fiabe, basato su azioni e ruoli fissati da antiche convenzioni narrative:
un re che ha potere di vita e di morte su ciò che lo circonda ed è disposto a tutto
pur di accontentare il principe, perfino quando gli chiede due ippopotami nani della
Liberia da aggiungere al suo zoo privato…
Carlitos
si muove in uno spazio urbano e domestico segnato dai tabù, dalle ipocrisie e dalle
ingiustizie del “vecchio” Messico con il suo cattolicesimo reazionario e le sue
enormi disuguaglianze sociali, ma allo stesso tempo in cammino verso un “nuovo”
che non necessariamente sarà migliore; Tochtli, invece, è come un regale pesciolino
chiuso in un acquario, un mondo fittizio che può andare in pezzi da un momento all’altro,
ma che non cambia mai e si regge su regole immutabili da interpretare e decifrare
per dare un senso alla follia degli adulti. Così, se Battaglie nel deserto
si configura come un romanzo “mobile” in cui tutto è in evoluzione (sentimenti,
spazi, classi sociali), Il bambino che collezionava parole è un racconto
immobile, un paesaggio racchiuso nella palla di vetro del narco, un palcoscenico
su cui attori interscambiabili dalla vita breve si avvicendano sanguinosamente per
rappresentare sempre gli stessi personaggi. Carlitos crescerà, ma non possiamo dare
per scontato che ci riuscirà anche Tochtli.
Dopo
aver corso consapevolmente il rischio di scegliere un protagonista bambino e di
adottare il suo punto di vista (espediente fin troppo comune, che nella maggior
parte di casi – ma non in questo – si risolve in una serie di irritanti banalità),
Villalobos è riuscito a dargli una voce convincente, non tanto vera quanto letterariamente
verosimile, capace di esporci da una angolazione nuova e audace la tragedia del
Messico di oggi e il suo quotidiano immolarsi. E la comicità ingenua, feroce e dolorosa
che lo attraversa dalla prima all’ultima pagina non è l’ultimo dei pregi di un romanzo
apparentemente semplice, ma in realtà quanto mai sofisticato: ridere, si sa, è una
forma di denuncia specialmente sovversiva, e non esclude certo l’indignazione, né
la buona letteratura.
Questo
articolo è uscito su Il manifesto nell’aprile del 2012