Mario Bellatin |
Contro l’estetica del potere
Sono passati molti anni da quando l’editore peruviano Jaime Campodónico pubblicò
Salón de belleza (1994) dell’allora trentaquattrenne Mario Bellatin, nato in Messico da genitori peruviani e cresciuto a Lima,
città che avrebbe lasciato per seguire i corsi della scuola di cinema cubana e poi
per trasferirsi a Ciudad de México. Da allora Bellatin ha scritto incessantemente,
è stato tradotto in varie lingue, ha vinto in Messico il Premio Nacional de Literatura
per El gran vidrio (Anagrama, 2007) e nel 2009 è stato presentato dal NY
Times come uno dei più interessanti e originali tra gli scrittori latinoamericani
contemporanei.
Potrebbe sembrare strano che, nonostante tutto questo, Bellatin sia quasi sconosciuto
in Italia, dove è fuggevolmente apparso solo Dama cinese (Bookever, 2007).
Il fatto è che, se molti editori italiani hanno avuto a lungo sul tavolo opere come
El jardín de la señora Murakami (Tusquets, 2000), Flores (Matadero-Lom,
2000), Jacobo el Mutante (Alfaguara, 2002), nessuno si è azzardato a pubblicare
un autore considerato troppo sperimentale per il nostro pubblico, nonché lontano
dalle tipologie di scrittura latinoamericana tutt’ora radicate nell’immaginario
dei lettori e anche in quello di molti critici.
Oggi, però, arrivano confortanti anche se non vistosi segnali di cambiamento,
che vanno dalla lenta scoperta o riscoperta di voci mai del tutto sommerse, a una
maggiore attenzione dell’editoria, e quindi, proposto da una casa editrice dedicata
alle letterature ispaniche, ecco arrivare fino a noi Salone di bellezza (La
Nuova Frontiera, 2011, traduzione di Chiara Muzzi), ambientato in un bizzarro salone
di parrucchiere adorno di vasche piene di pesci tropicali, che a poco a poco si
trasforma in un moridero, cioè un luogo in cui vengono ospitate le vittime
ormai insalvabili di un morbo non meglio specificato. Là gli infermi, respinti dalle
famiglie e dagli ospedali, potranno morire in pace, accompagnati fino all’ultimo
dall’ex parrucchiere gay che li accoglie per sottrarli alla solitudine, all’abbandono
e alle cure ostinate e inutili con cui li torturano i buoni samaritani di professione,
pronti a negare ai morenti gli ultimi brandelli di dignità, ma anche di una rivendicata
e tenace “indegnità”.
Come in tutte le opere dello scrittore messicano, anche qui i riferimenti spazio-temporali
si affacciano solo attraverso impercettibili dettagli: non sappiamo, infatti, dove
si trovi la periferia metropolitana che è il luogo della storia (anche se le bande
dei Matacabros a caccia di travestiti, nonché l’uso di un solitario modismo,
sembrano alludere a Lima), e non ci sono indicazioni sul periodo in cui la vicenda
si svolge. Il lettore, però, sa che Salone di bellezza è stato scritto all’inizio
degli anni ’90, quando l’AIDS era la peste del XX secolo, e in questa luce potrebbe
considerarlo una parabola sulla malattia e sulla comunità omosessuale che a suo
tempo ne è stata devastata. E così è stato letto da molti, anche perché il protagonista
senza nome e senza volto, contagiato a sua volta e in viaggio verso la morte, racconta
della sua vita en travesti e delle avventure nei bagni pubblici; senza contare
che tra le regole del moridero (dove si è ammessi solo quando non c’è più
speranza) ce n’è una tassativa: niente donne, niente bambini, soltanto uomini che
costituiscono in mortem una “repubblica” chiusa e in qualche modo stoica.
L’ignota malattia, però, potrebbe anche essere una qualunque delle tante pandemie
periodicamente annunciate, oppure una simbolica peste sociale che colpisce i marginali
delle megalopoli. E l’accudimento minimo ed essenziale dei moribondi è stato interpretato
come una metafora dell’eutanasia, ma anche come un ritorno tra le braccia della
Madre (il gestore del moridero, così spesso in abiti femminili) che dispensa
vita e morte. Ma c’è anche un altro filo da seguire, quello rappresentato dai pesci
che vivono e muoiono nelle vasche del salone, sempre più vuote e desolate man mano
che la narrazione avanza: una presenza che esprime la dialettica tra morte e bellezza
e il continuo scivolare dell’una nell’altra, ma presiede anche alla trasformazione
del moridero in “acquario” sigillato, pieno di creature immobili e piagate
e destinato a svuotarsi con la prossima morte del suo creatore.
Le molte interpretazioni possibili, come pure l’intervento del lettore, pronto
a insinuarsi nei molti silenzi del testo e perfino a trasformarsi in detective per
decifrarne i misteri, non sono sgraditi a Bellatin, che sembra anzi predisporre
tutto per provocarli, ma in un certo senso non lo riguardano. La sua scrittura semplice
e nuda, definita minimalista per via di un costante lavoro di “sottrazione” (via
gli aggettivi, via le belle frasi, via ogni possibile orpello, e infine, come in
Lecciones para una liebre muerta, via l’unità del testo che si spezza in
frammenti), trova la propria giustificazione in se stessa, non ha messaggi da trasmettere
e mira a costruire “un universo fittizio assurdo ed ermetico, anche se assolutamente
coerente, un mondo retto da una logica propria e, pertanto, capace di sostenersi
da solo e di generare discorsi nuovi che, come se fossero pezzi di un mosaico, si
incastrano perfettamente”, scrive Diana Palaversich nel prologo alla Obra Reunida
dello scrittore(Alfaguara, 2005).
Misterioso come i suoi romanzi, Bellatin è un autore che si nasconde, e lo fa
celandosi dietro una sovraesposizione fisica che lo vede protagonista di provocatorie
performances e sembra coagularsi nell’uso di bizzarre protesi-scultura (lo scrittore
è nato senza l’avambraccio destro) concluse da un uncino, un ghirigoro, un leggìo,
perfino da un grosso pene metallico. E forse, come scrive Javier Guerrero in un
suo saggio (El esperimento “Mario Bellatin”. Cuerpo enfermo y anomalía en el tránsito material del sexo, Estudios n. 63-69, 2009), proprio nell’opposizione a quello che Foucault chiamava
biopotere sta la chiave dell’opera di questo autore, che da una parte trasforma
la propria anatomia in un manifesto, una forma di scrittura, un’opera d’arte, e
dall’altra intesse nei suoi libri un discorso su una corporeità imperfetta, instabile,
mutante e sovversiva, che si sottrae al canone stabilito dal potere e alla sua estetica.
Il corpo delle creature di Bellatin (il suo stesso corpo) non si lascia modellare
impunemente nelle forme più “adatte” e oppone una resistenza che non può lasciare
indifferenti.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2011