sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Mario Bellatin


Mario Bellatin



Contro l’estetica del potere

Sono passati molti anni da quando l’editore peruviano Jaime Campodónico pubblicò Salón de belleza (1994) dell’allora trentaquattrenne Mario Bellatin, nato in Messico da genitori peruviani e cresciuto a Lima, città che avrebbe lasciato per seguire i corsi della scuola di cinema cubana e poi per trasferirsi a Ciudad de México. Da allora Bellatin ha scritto incessantemente, è stato tradotto in varie lingue, ha vinto in Messico il Premio Nacional de Literatura per El gran vidrio (Anagrama, 2007) e nel 2009 è stato presentato dal NY Times come uno dei più interessanti e originali tra gli scrittori latinoamericani contemporanei.

Potrebbe sembrare strano che, nonostante tutto questo, Bellatin sia quasi sconosciuto in Italia, dove è fuggevolmente apparso solo Dama cinese (Bookever, 2007). Il fatto è che, se molti editori italiani hanno avuto a lungo sul tavolo opere come El jardín de la señora Murakami (Tusquets, 2000), Flores (Matadero-Lom, 2000), Jacobo el Mutante (Alfaguara, 2002), nessuno si è azzardato a pubblicare un autore considerato troppo sperimentale per il nostro pubblico, nonché lontano dalle tipologie di scrittura latinoamericana tutt’ora radicate nell’immaginario dei lettori e anche in quello di molti critici.

Oggi, però, arrivano confortanti anche se non vistosi segnali di cambiamento, che vanno dalla lenta scoperta o riscoperta di voci mai del tutto sommerse, a una maggiore attenzione dell’editoria, e quindi, proposto da una casa editrice dedicata alle letterature ispaniche, ecco arrivare fino a noi Salone di bellezza (La Nuova Frontiera, 2011, traduzione di Chiara Muzzi), ambientato in un bizzarro salone di parrucchiere adorno di vasche piene di pesci tropicali, che a poco a poco si trasforma in un moridero, cioè un luogo in cui vengono ospitate le vittime ormai insalvabili di un morbo non meglio specificato. Là gli infermi, respinti dalle famiglie e dagli ospedali, potranno morire in pace, accompagnati fino all’ultimo dall’ex parrucchiere gay che li accoglie per sottrarli alla solitudine, all’abbandono e alle cure ostinate e inutili con cui li torturano i buoni samaritani di professione, pronti a negare ai morenti gli ultimi brandelli di dignità, ma anche di una rivendicata e tenace “indegnità”.

Come in tutte le opere dello scrittore messicano, anche qui i riferimenti spazio-temporali si affacciano solo attraverso impercettibili dettagli: non sappiamo, infatti, dove si trovi la periferia metropolitana che è il luogo della storia (anche se le bande dei Matacabros a caccia di travestiti, nonché l’uso di un solitario modismo, sembrano alludere a Lima), e non ci sono indicazioni sul periodo in cui la vicenda si svolge. Il lettore, però, sa che Salone di bellezza è stato scritto all’inizio degli anni ’90, quando l’AIDS era la peste del XX secolo, e in questa luce potrebbe considerarlo una parabola sulla malattia e sulla comunità omosessuale che a suo tempo ne è stata devastata. E così è stato letto da molti, anche perché il protagonista senza nome e senza volto, contagiato a sua volta e in viaggio verso la morte, racconta della sua vita en travesti e delle avventure nei bagni pubblici; senza contare che tra le regole del moridero (dove si è ammessi solo quando non c’è più speranza) ce n’è una tassativa: niente donne, niente bambini, soltanto uomini che costituiscono in mortem una “repubblica” chiusa e in qualche modo stoica.

L’ignota malattia, però, potrebbe anche essere una qualunque delle tante pandemie periodicamente annunciate, oppure una simbolica peste sociale che colpisce i marginali delle megalopoli. E l’accudimento minimo ed essenziale dei moribondi è stato interpretato come una metafora dell’eutanasia, ma anche come un ritorno tra le braccia della Madre (il gestore del moridero, così spesso in abiti femminili) che dispensa vita e morte. Ma c’è anche un altro filo da seguire, quello rappresentato dai pesci che vivono e muoiono nelle vasche del salone, sempre più vuote e desolate man mano che la narrazione avanza: una presenza che esprime la dialettica tra morte e bellezza e il continuo scivolare dell’una nell’altra, ma presiede anche alla trasformazione del moridero in “acquario” sigillato, pieno di creature immobili e piagate e destinato a svuotarsi con la prossima morte del suo creatore.

Le molte interpretazioni possibili, come pure l’intervento del lettore, pronto a insinuarsi nei molti silenzi del testo e perfino a trasformarsi in detective per decifrarne i misteri, non sono sgraditi a Bellatin, che sembra anzi predisporre tutto per provocarli, ma in un certo senso non lo riguardano. La sua scrittura semplice e nuda, definita minimalista per via di un costante lavoro di “sottrazione” (via gli aggettivi, via le belle frasi, via ogni possibile orpello, e infine, come in Lecciones para una liebre muerta, via l’unità del testo che si spezza in frammenti), trova la propria giustificazione in se stessa, non ha messaggi da trasmettere e mira a costruire “un universo fittizio assurdo ed ermetico, anche se assolutamente coerente, un mondo retto da una logica propria e, pertanto, capace di sostenersi da solo e di generare discorsi nuovi che, come se fossero pezzi di un mosaico, si incastrano perfettamente”, scrive Diana Palaversich nel prologo alla Obra Reunida dello scrittore(Alfaguara, 2005).

Misterioso come i suoi romanzi, Bellatin è un autore che si nasconde, e lo fa celandosi dietro una sovraesposizione fisica che lo vede protagonista di provocatorie performances e sembra coagularsi nell’uso di bizzarre protesi-scultura (lo scrittore è nato senza l’avambraccio destro) concluse da un uncino, un ghirigoro, un leggìo, perfino da un grosso pene metallico. E forse, come scrive Javier Guerrero in un suo saggio (El esperimento “Mario Bellatin”. Cuerpo enfermo y anomalía en el tránsito material del sexo, Estudios n. 63-69, 2009), proprio nell’opposizione a quello che Foucault chiamava biopotere sta la chiave dell’opera di questo autore, che da una parte trasforma la propria anatomia in un manifesto, una forma di scrittura, un’opera d’arte, e dall’altra intesse nei suoi libri un discorso su una corporeità imperfetta, instabile, mutante e sovversiva, che si sottrae al canone stabilito dal potere e alla sua estetica. Il corpo delle creature di Bellatin (il suo stesso corpo) non si lascia modellare impunemente nelle forme più “adatte” e oppone una resistenza che non può lasciare indifferenti.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2011