Pallottole d’argento
Balas de salva. Notas sobre el narco en la narrativa mexicana: così si intitola un saggio di Rafael Lemus che, pubblicato nel 2005 su una
rivista di grande prestigio, Letras libres, innescò una dura polemica nel
mondo letterario messicano. Nel suo articolo, infatti, il critico se la prendeva
con i norteños, gli scrittori di frontiera
che non da oggi vengono considerati da molti la migliore espressione della letteratura
messicana attuale, accusandoli tra l’altro di aver creato un sottogenere che, passando
attraverso il romanzo picaresco, il melodramma e il poliziesco, imporrebbe i suoi
stereotipi per fondare una facile epica del Norte criminale, e infine di
confezionare trame populiste che ritraggono la realtà in modo pedissequo e didascalico,
nonostante i “veri scrittori” sappiano che la parola è impotente ad esprimerla.
E realtà, per i norteños, significherebbe innanzitutto narcotraffico,
un tema così invasivo da permeare anche i testi di autori come Daniel Sada, David
Toscana o Cristina Rivera Garza, che ne parlano “attraverso l’assenza”, disegnando
metafore inequivocabili. Più espliciti, e quindi da giudicare più severamente, sarebbero
scrittori quali Federico Campbell, Gabriel Trujillo Muñoz, Élmer Mendoza, Luis Humberto
Crosthwaite, Juan José Rodríguez, Eduardo Antonio Parra, Rafa Saavedra e molti altri.
Se alcuni non vengono citati, come Yuri Herrera (autore di Trabajos del reino,
in cui si narra l’ascesa e la caduta di un cantante di narcocorridos al servizio
di un trafficante) o Alejandro Almazán (il suo Entre perros,
violenta e nerissima opera d’esordio, è pubblicato da Mondadori Mexico),
è solo perché all’epoca i loro romanzi non esistevano, o erano quasi sconosciuti.
E chissà cosa direbbe Lemus di Adàn en el Edèn, romanzo di Carlos
Fuentes (Alfaguara 2009), in cui il vecchio “mostro sacro” affronta anche
lui il mondo dei narcos, con esiti per la verità non troppo felici.
Uno degli scrittori con cui il critico se l’è presa maggiormente è il più noto
fra loro: Elmer Mendoza, nato e cresciuto nella capitale dello stato di Sinaloa,
Culiacàn (culla e regno del narcotraffico), professore universitario, autore di
alcuni libri di racconti e di diversi romanzi (Un asesino solitario, El amante de Janis Joplin, Efecto Tequila,
Cóbraselo Caro) l’ultimo dei quali è Balas de plata, insignito del
premio Tusquets nel 2008 e pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera, col titolo
di Pallottole d’argento. Ma basta leggere qualche pagina per capire quanto
la critica di Lemus fosse stizzosa e supponente nel suo riproporre la vecchia contrapposizione
tra letteratura “alta” e “bassa”, con aggiunta di ripicche regionalistiche: perché
Pallottole d’argento appare immediatamente come un romanzo di tutto rispetto,
che utilizza i canoni del noir per proporre un protagonista attendibile (El
Zurdo Mendieta, detective malinconico e vagamente chandleriano, molestato
da un prete durante l’infanzia e per questo in cura da uno psichiatra) e personaggi
di contorno ben riusciti, e per costruire una narrazione avvincente attraverso una
scrittura che seduce e pretende l’attenzione del lettore. In questo come in altri
romanzi, infatti, Mendoza sperimenta uno stile frammentario, parlato, rapido, e
ricorre a una polifonia di linguaggi diversi: gergo di strada, frasi sincopate,
l’abbandono di trattini e virgolette e della distinzione tra “pensato” e “parlato”.
Ma quel che più affascina, al di là delle svolte ben congegnate di una trama
che funziona (la morte di un membro dell’alta società ucciso nel suo letto da una
pallottola d’argento, l’incrocio di vari fili narrativi che portano a una soluzione
inattesa), è la capacità dell’autore di trasformare in letteratura una realtà che
è andata “molto oltre l’accettabile”. Legata non a un tema, ma a un contesto – come
ha notato a suo tempo Eduardo Antonio Parra nella sua energica ed efficace risposta
a Lemus – la narrativa di Mendoza si assume il rischio di mostrarci come il narcotraffico,
con i suoi codici, i suoi risvolti politici ed economici, la sua salda presa sulla
società, la sua “produzione di cultura” sia diventato qualcosa di più di un fenomeno
criminale: una vischiosa gelatina globale che, ce ne rendiamo conto o no, va rimodellando
intere zone del mondo.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2010