sabato 7 giugno 2014

da leggere: Adolfo Bioy Casares





Adolfo Bioy Casares


L’invenzione di Adolfito

Era tempo che un editore italiano decidesse di pubblicare in modo non casuale e con sistematicità le opere di uno dei più grandi autori del ‘900, l’argentino Adolfo Bioy Casares (1914-1999), che da noi continua a essere noto solo in una cerchia di lettori assai ristretta, e che in passato è stato  vittima  di traduzioni sporadiche e  non felicissime. Questo compito se lo è oggi assunto Cavallo di Ferro, casa editrice specializzata in letteratura di lingua portoghese e spagnola, che l’anno scorso ha cominciato a mettere insieme una vera e propria “biblioteca Bioy” con la pubblicazione di “L’anno della guerra al maiale”, e che oggi ripropone “Piano di evasione”, già uscito nel ’74 presso Bompiani nella medesima traduzione di Romana Petri, al quale farà presto seguito un’antologia di racconti  inediti in italiano, “L’eroe delle donne”.
Ai lettori italiani si presenta dunque l’occasione di fare una più approfondita conoscenza di un autore che  troppo spesso è stato considerato soltanto il fedele amico e sodale di Borges, al quale l’ha unito una lunga, strettissima amicizia cominciata nel 1932 – a presentarli era stata Victoria Ocampo, fondatrice della rivista Sur, autentico ponte tra letteratura latinoamericana ed europea -  e narrata giorno per giorno nelle milleseicento pagine del diario che Bioy  tenne per oltre quarant’anni e che, pubblicate dopo la sua morte, lo hanno consacrato come un Boswell alquanto indipendente e affettuosamente sarcastico nei confronti del suo Johnson.
Proprio dalla lettura dei diari è facile capire che Bioy  era tutt’altro che subalterno all’amico e che Borges doveva spesso confrontarsi/scontrarsi non solo con lui, ma anche con quella bizzarra “creatura a due teste” che erano los Bioy, ovvero la simbiotica coppia composta da Adolfo e da Silvina Ocampo, scrittrice ineguagliabile e appartatissima, moglie-amica costantemente tradita (Bioy, noto per il suo grande fascino, ebbe moltissime amanti, due figli nati fuori dal matrimonio e una ventennale relazione clandestina con un’altra grande scrittrice, la messicana Elena Garro, prima moglie di Octavio Paz). Ma che il legame tra Borges e Adolfito, come lo chiamavano gli intimi, non avesse fatto di quest’ultimo una semplice replica un po’ sbiadita dell’altro, più anziano scrittore, risulta chiaro da una valutazione attenta dell’opera di Bioy, che, nonostante l’iniziale prossimità con quella borgesiana, prese a un certo punto strade tutte sue. Solo dopo la scomparsa di Borges, però, Bioy potè vedere davvero riconosciuta la sua statura di letterato e di romanziere: privata del suo “padre nobile”, l’Argentina si innamorò finalmente di lui, vecchio gentiluomo di squisita gentilezza, come testimoniano le pagine a lui dedicate da Cortázar e soprattuto da Osvaldo Soriano, al quale era apparso la persona “più rispettosa degli altri” che avesse mai conosciuto. 
Con Borges, Bioy aveva scritto a quattro mani Seis problemas para don Isidro Parodi (1942), raccolta di casi polizieschi risolti con geometrica precisione e firmati con lo pseudonimo di Bustos Domecq, che rivelavano il profondo interesse di entrambi per il “genere” in quanto garanzia di una trama solida e ben costruita. Un interesse ribadito anche nella “Antologia della letteratura fantastica” compilata da entrambi e da Silvina Ocampo, uscita in Argentina nel 1940 (la più recente edizione italiana è quella di Einaudi del 2007); un interesse che, tuttavia, con gli anni venne meno, come confesserà lo stesso Bioy in un’aggiunta alla prefazione datata 1965: “Noi, compilatori di questa antologia, credevamo allora che il romanzo, nel nostro paese e nella nostra epoca, soffrisse di una grave debolezza nella trama, perché gli autori avevano dimenticato quello che potremmo chiamare il proposito primordiale della professione: raccontare storie (…). Di sicuro il romanzo psicologico non fu scalfito dai nostri assalti: ha la vita assicurata perché come un inesauribile specchio riflette visi diversi nei quali il lettore si riconosce sempre”. 
Scritto subito dopo “L’invenzione di Morel” - il suo primo e più celebre romanzo del quale esiste anche un curioso adattamento cinematografico italiano degli anni’70, con la regia di Emidio Greco e la sceneggiatura di Andrea Barbato – “Piano di evasione” può essere senz’altro considerato frutto della convinzione che il fantastico sia, in quanto genere, un collettore ideale di storie, e, se non fosse per la squisita audacia della forma e per la scrittura essenziale ma rarefatta, sarebbe da collocare nello scaffale della science fiction.
Breve e di impianto assai poco tradizionale, visto che la vicenda viene riferita da qualcuno in possesso di frammentarie informazioni epistolari più o meno riordinate e interpretate, il romanzo parla di Henri Nevers, giovane tenente che per colpa di oscuri intrighi familiari deve abbandonare la patria e un’amatissima fanciulla di nome Irene per recarsi a Caienna, capitale della Guiana francese, e poi insediarsi nella colonia penale che ospitò il capitano Dreyfuss, del quale nel romanzo si incontrano tracce e memorie. Contrariamente a quanto farebbero pensare il titolo e anche i sospetti che il protagonista esprime in più di una occasione, il fulcro della narrazione non è un’evasione di massa progettata dai detenuti con il sostegno del direttore della prigione, Castel, ma una sorta di partita a scacchi mentale tra due avversari capaci di sfidarsi ma non di capirsi. E se Castel è un implacabile utopista che crede fermamente “nell’educazione” , come dichiara al tenente appena arrivato, Nevers è un pusillanime devoto a letture classiche, confuso e un po’ paranoico. L’inevitabile scontro tra i due precipita infine in una incredibile rivelazione finale, dopo mille equivoci e fraintendimenti, tra morti misteriose e tentativi di mutare la realtà nel più  impossibile e visionario dei modi: si conosce attraverso i sensi, e quindi basta modificarli per cambiare il mondo, inteso come flusso indistinto di sensazioni: è in questo modo che il prigioniero, chiuso nella sua cella, può credersi e “diventare” libero.
“Piano di evasione” si presenta dunque come una vera e propria anticipazione di una realtà virtuale evocata non da tecnologie o droghe, ma da un’applicazione della goethiana teoria dei colori portata alle estreme conseguenze, e si sviluppa lungo il filo di una scrittura rigorosa e non consapevole degli imperativi estetici e tecnici che comporta la narrazione di una storia fantastica. Anche qui si potrebbe individuare lo stesso richiamo a Wells e alle sue isole popolate da scienziati e sperimentatori che si sentono onnipotenti, già sottolineato da Borges nella presentazione de “L’invenzione di Morel”. E anche qui l’amore (perduto, impossibile, lontano), si presenta come un onnipresente sottotema, nonostante il testo nulla conceda alle emozioni, ai sentimenti e alla psicologia dei personaggi.
 Ma che al di là di tutto questo, per Bioy il complicato e gelido enigma intellettuale proposto da “Piano di evasione” fosse soprattutto un gioco, lo dimostra l’ultima riga del romanzo, quando un cugino di Nevers, in pratica un alter ego, prende il suo posto. La storia comincia a ripetersi e l’autore ne sancisce la circolarità e lo spirito cupamente ludico liquidandola con un “Eccetera” finale. Stanco del suo balocco, lo scrittore lo abbandona, o forse lo ripone in attesa della prossima partita

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel mese di febbraio del 2009