Adolfo Bioy Casares
Era tempo che un editore italiano decidesse di pubblicare in modo non casuale e con sistematicità le opere di uno dei più grandi autori del ‘900, l’argentino Adolfo Bioy Casares (1914-1999), che da noi continua a essere noto solo in una cerchia di lettori assai ristretta, e che in passato è stato vittima di traduzioni sporadiche e non felicissime. Questo compito se lo è oggi assunto Cavallo di Ferro, casa editrice specializzata in letteratura di lingua portoghese e spagnola, che l’anno scorso ha cominciato a mettere insieme una vera e propria “biblioteca Bioy” con la pubblicazione di “L’anno della guerra al maiale”, e che oggi ripropone “Piano di evasione”, già uscito nel ’74 presso Bompiani nella medesima traduzione di Romana Petri, al quale farà presto seguito un’antologia di racconti inediti in italiano, “L’eroe delle donne”.
Ai lettori italiani si presenta dunque
l’occasione di fare una più approfondita conoscenza di un autore che troppo spesso è stato considerato soltanto il
fedele amico e sodale di Borges, al quale l’ha unito una lunga, strettissima
amicizia cominciata nel 1932 – a presentarli era stata Victoria Ocampo,
fondatrice della rivista Sur, autentico ponte tra letteratura latinoamericana
ed europea - e narrata giorno per giorno
nelle milleseicento pagine del diario che Bioy
tenne per oltre quarant’anni e che, pubblicate dopo la sua morte, lo
hanno consacrato come un Boswell alquanto indipendente e affettuosamente
sarcastico nei confronti del suo Johnson.
Proprio dalla lettura dei diari è facile capire
che Bioy era tutt’altro che subalterno
all’amico e che Borges doveva spesso confrontarsi/scontrarsi non solo con lui,
ma anche con quella bizzarra “creatura a due teste” che erano los Bioy, ovvero la simbiotica coppia
composta da Adolfo e da Silvina Ocampo, scrittrice ineguagliabile e
appartatissima, moglie-amica costantemente tradita (Bioy, noto per il suo
grande fascino, ebbe moltissime amanti, due figli nati fuori dal matrimonio e
una ventennale relazione clandestina con un’altra grande scrittrice, la
messicana Elena Garro, prima moglie di Octavio Paz). Ma che il legame tra
Borges e Adolfito, come lo chiamavano gli intimi, non avesse fatto di
quest’ultimo una semplice replica un po’ sbiadita dell’altro, più anziano
scrittore, risulta chiaro da una valutazione attenta dell’opera di Bioy, che,
nonostante l’iniziale prossimità con quella borgesiana, prese a un certo punto
strade tutte sue. Solo dopo la scomparsa di Borges, però, Bioy potè vedere
davvero riconosciuta la sua statura di letterato e di romanziere: privata del
suo “padre nobile”, l’Argentina si innamorò finalmente di lui, vecchio
gentiluomo di squisita gentilezza, come testimoniano le pagine a lui dedicate
da Cortázar e soprattuto da Osvaldo Soriano, al quale era
apparso la persona “più rispettosa degli altri” che avesse mai conosciuto.
Con Borges, Bioy aveva scritto a quattro mani Seis
problemas para don Isidro Parodi (1942), raccolta di casi polizieschi
risolti con geometrica precisione e firmati con lo pseudonimo di Bustos Domecq,
che rivelavano il profondo interesse di entrambi per il “genere” in quanto
garanzia di una trama solida e ben costruita. Un interesse ribadito anche nella
“Antologia della letteratura fantastica” compilata da entrambi e da Silvina
Ocampo, uscita in Argentina nel 1940 (la più recente edizione italiana è quella
di Einaudi del 2007); un interesse che, tuttavia, con gli anni venne meno, come
confesserà lo stesso Bioy in un’aggiunta alla prefazione datata 1965: “Noi, compilatori
di questa antologia, credevamo allora che il romanzo, nel nostro paese e nella
nostra epoca, soffrisse di una grave debolezza nella trama, perché gli autori
avevano dimenticato quello che potremmo chiamare il proposito primordiale della
professione: raccontare storie (…). Di sicuro il romanzo psicologico non fu
scalfito dai nostri assalti: ha la vita assicurata perché come un inesauribile
specchio riflette visi diversi nei quali il lettore si riconosce sempre”.
Scritto subito dopo “L’invenzione di Morel” - il
suo primo e più celebre romanzo del quale esiste anche un curioso adattamento
cinematografico italiano degli anni’70, con la regia di Emidio Greco e la
sceneggiatura di Andrea Barbato – “Piano di evasione” può essere senz’altro
considerato frutto della convinzione che il fantastico sia, in quanto genere,
un collettore ideale di storie, e, se non fosse per la squisita audacia della
forma e per la scrittura essenziale ma rarefatta, sarebbe da collocare nello
scaffale della science fiction.
Breve e di impianto assai poco tradizionale,
visto che la vicenda viene riferita da qualcuno in possesso di frammentarie
informazioni epistolari più o meno riordinate e interpretate, il romanzo parla
di Henri Nevers, giovane tenente che per colpa di oscuri intrighi familiari
deve abbandonare la patria e un’amatissima fanciulla di nome Irene per recarsi
a Caienna, capitale della Guiana francese, e poi insediarsi nella colonia
penale che ospitò il capitano Dreyfuss, del quale nel romanzo si incontrano
tracce e memorie. Contrariamente a quanto farebbero pensare il titolo e anche i
sospetti che il protagonista esprime in più di una occasione, il fulcro della
narrazione non è un’evasione di massa progettata dai detenuti con il sostegno
del direttore della prigione, Castel, ma una sorta di partita a scacchi mentale
tra due avversari capaci di sfidarsi ma non di capirsi. E se Castel è un
implacabile utopista che crede fermamente “nell’educazione” , come dichiara al
tenente appena arrivato, Nevers è un pusillanime devoto a letture classiche,
confuso e un po’ paranoico. L’inevitabile scontro tra i due precipita infine in
una incredibile rivelazione finale, dopo mille equivoci e fraintendimenti, tra
morti misteriose e tentativi di mutare la realtà nel più impossibile e visionario dei modi: si conosce
attraverso i sensi, e quindi basta modificarli per cambiare il mondo, inteso
come flusso indistinto di sensazioni: è in questo modo che il prigioniero,
chiuso nella sua cella, può credersi e “diventare” libero.
“Piano di evasione” si presenta dunque come una
vera e propria anticipazione di una realtà virtuale evocata non da tecnologie o
droghe, ma da un’applicazione della goethiana teoria dei colori portata alle
estreme conseguenze, e si sviluppa lungo il filo di una scrittura rigorosa e non
consapevole degli imperativi estetici e tecnici che comporta la narrazione di
una storia fantastica. Anche qui si potrebbe individuare lo stesso richiamo a
Wells e alle sue isole popolate da scienziati e sperimentatori che si sentono
onnipotenti, già sottolineato da Borges nella presentazione de “L’invenzione di
Morel”. E anche qui l’amore (perduto, impossibile, lontano), si presenta come
un onnipresente sottotema, nonostante il testo nulla conceda alle emozioni, ai
sentimenti e alla psicologia dei personaggi.
Ma che al
di là di tutto questo, per Bioy il complicato e gelido enigma intellettuale
proposto da “Piano di evasione” fosse soprattutto un gioco, lo dimostra
l’ultima riga del romanzo, quando un cugino di Nevers, in pratica un alter ego,
prende il suo posto. La storia comincia a ripetersi e l’autore ne sancisce la
circolarità e lo spirito cupamente ludico liquidandola con un “Eccetera”
finale. Stanco del suo balocco, lo scrittore lo abbandona, o forse lo ripone in
attesa della prossima partita
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nel mese di febbraio del 2009