Se gli artisti sono strani
Sull’esempio dello scrittore e poeta catalano
Pere Gimferrer - che agli autori “strani” ha dedicato un saggio, Los raros,
uscito nel 1985 - il critico cileno
Alvaro Matus ha compilato un elenco degli scrittori di lingua spagnola da
considerarsi appunto raros, ovvero insoliti e bizzarri, in quanto
consapevolmente lontani dai modelli egemonici. E tra essi non potevano
ovviamente mancare César Aira e Mario Bellatin, prosatori di generazioni e
nazionalità diverse, che tuttavia hanno parecchie cose in comune e che per una
curiosa coincidenza hanno visto uscire quasi contemporaneamente due loro opere
tradotte nella nostra lingua, dove, al contrario che in Francia e in Spagna,
sono ancora poco conosciuti.
Di Aira, nato nel ’49 e considerato “lo
scrittore più originale, eccitante e sovversivo delle letteratura ispanica”,
nonché, almeno fino a qualche anno fa, “il segreto meglio custodito della
letteratura argentina”, i lettori italiani più curiosi e avvertiti potrebbero
aver già letto “Ema la prigioniera”
(Bollati Boringhieri) o “Il mago” (Feltrinelli
2006), cui si è aggiunto “Come
diventai monaca” (Feltrinelli), brillantemente tradotto da Raul
Schenardi. Per Mario Bellatin, di origine peruviana ma nato nel 1960 in Messico, dove oggi
vive, si tratta invece della prima traduzione italiana: il suo “Dama cinese”, tradotto per gli
Editori Riuniti da Maria Nicola, esce nella collana Bookever. Entrambi hanno
indubbiamente diritto a essere definiti raros, e non tanto perché sono
scrittori furiosamente prolifici, che pubblicano a getto continuo con case
editrici molto diverse tra loro – figurano insieme, per esempio, nei cataloghi
di grandi gruppi editoriali come in quello della casa editrice più piccola
delle due Americhe, l’argentina Eloisa Cartonera – , o perché, in tempi di
best-seller mai inferiori alle 400 pagine, hanno optato per la più assoluta
brevità.
La loro “stranezza” ha a che fare piuttosto con
una concezione della letteratura che sfugge a ogni classificazione, si concentra
più sul processo creativo che sul risultato, infrange deliberatamente le attese
del lettore e lo mette alla prova, fa saltare le più collaudate convenzioni
narrative e ruota principalmente attorno alla forma e al procedimento, intesi
come strumenti per restituire radicalità all’arte e per spingersi sempre più
oltre in cerca del nuovo, sfuggendo alla pura e semplice ars combinatoria della postmodernità. Scelte forti, insomma,
connotate dalla noncuranza o addirittura dall’irriverenza per il mercato, e che
suscitano la medesima reazione nei critici e nel pubblico: Aira e Bellatin
vengono amati o odiati senza mezzi termini, e, nonostante dichiarino di
scrivere “per tutti”, non sono
certamente destinati a un pubblico di massa. Le indubbie somiglianze e i molti
punti di coincidenza tra le loro proposte e il loro modo di considerare la
scrittura, però, non sminuiscono un’unicità che un rapido confronto è
sufficiente a stabilire.
Aira, saggista oltre che narratore e autore
delle vidas literarias di Alejandra Pizarnik e Copi, nelle sue novelitas
mescola i materiali più diversi e frequenta tutti i generi, dalla parodia al
romanzo storico, dal poliziesco al gotico, ibridandoli e stravolgendoli grazie
all’uso costante di una cassetta degli attrezzi rubata alle avanguardie che
ammira - dadaismo, surrealismo, costruttivismo russo -, senza mai smettere,
come lui stesso dichiara, di attingere alla realtà che lo circonda (fatti di
cronaca, particolari colti per strada, telenovelas, titoli di giornale) e
soprattutto senza rinunciare a parlare attraverso i suoi personaggi.
“Descrivere il personaggio di un romanzo dall’esterno è un atteggiamento
paternalista che non mi piace. Entro in lui e gli regalo tutti i miei pensieri,
mi sembra un atteggiamento più generoso”, ha dichiarato in diverse occasioni, e
i lettori di “Come divenni monaca”
scopriranno subito che è proprio così.
In questo brevissimo romanzo del 1993, infatti,
il protagonista è una bambina/bambino di nome César Aira, che parla di sé al
femminile mentre tutti gli altri le si rivolgono al maschile, e che ci racconta
del suo primo, disgustoso assaggio di gelato alla fragola, di suo padre che
uccide prontamente il gelataio e della vendetta a sorpresa della vedova di
quest’ultimo. A chi lo interroga su questo librino pieno di misteriose
incongruenze, capace di spiazzare il lettore a ogni riga e di ricordargli in
modo perentorio che la libertà del romanziere è infinita, Aira usa rispondere
che si tratta della sua autobiografia tra i sei e i sette anni, narrazione fedele
di un anno di vita.
“Se i lettori cercano nei miei libri qualcosa di
me, non troveranno nulla”, sostiene invece Mario Bellatin, che si nasconde
dietro una scrittura straordinariamente reticente, concentratissima, ai limiti
dell’afasia. I brevi romanzi che ha scritto fino a oggi somigliano a sinistre
rappresentazioni di una scena del delitto, ad ambigui tableaux vivants realizzati con severa economia di mezzi per
mostrarci difetti fisici e deformità, solitarie agonie, bambini sofferenti,
animali bellissimi o eroici, marginalità e morte. In “Dama Cinese” (uscito per la prima volta in Perù nel 1995) si
incrociano tre storie apparentemente prive di collegamento, come in un film di
David Lynch: quella di un ginecologo che conduce la doppia vita del bravo professionista
e del frenetico frequentatore di bordelli; quella di un bambino dalla testa
deforme che si impegna nel laboriosissimo recupero di un rimborso, lottando
contro l’assurdità della burocrazia; quella di una anziana e ricca signora che
va in giro con una corona in testa. Ma in realtà il bambino è il figlio di una
paziente che deve la sua salvezza proprio al ginecologo, e la vecchia signora,
rapitrice improvvisata, ha qualcosa in comune con il medico, perché tutti e due
hanno in qualche modo provocato la morte dei propri figli.
Come nella stella a sei punte della dama cinese,
gli incroci delle pedine creano disegni nuovi e imprevedibili, e, come in altri
romanzi di Bellatin (per esempio Salón de belleza, storia di un
travestito che alleva pesci tropicali nel suo negozio di parrucchiere,
diventato un asilo per i malati di AIDS), sotto la voce glaciale di un
narratore che rinuncia all’onniscenza e mostra solo ciò che vede, affiora
l’ombra restìa e quasi magica della compassione. Interessato soprattutto alla
creazione di un universo e di uno stile totalmente riconoscibili, Bellatin
gioca sino in fondo la carta dell’assenza e del silenzio, dello spazio bianco
tra una parola e l’altra: un’enorme, minuzioso lavoro di sottrazione
progressiva, che elimina via via gli
aggettivi e annulla i dialoghi, che non propone finali e abolisce i nomi dei
personaggi, che evita di definire i luoghi. E, alla lunga, il lettore si
accorge di poter leggere i suoi romanzi come altrettanti capitoli di un’unica
opera in cui, nonostante l’aspirazione dell’autore a “non esserci”, affiorano
ossessioni personali e la peculiare, desolata visione del mondo di uno
scrittore autenticamente raro.
Che dopotutto abbia ragione César Aira, quando
dice: “se gli artisti sono strani, non è perché l’arte li resi tali, ma perché
la stranezza li ha guidati all’arte”?
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2007