Yuri Herrera |
La trasmigrazione dei corpi
Il ricco panorama della letteratura messicana è oggi tra quelli che, accanto
ai grandi autori del recente passato, offrono all’editoria internazionale una rosa
di nomi specialmente interessanti: scrittori fra i trenta e i quarant’anni ormai
lontani da “padri” celebri e ingombranti come Octavio Paz, Carlos Fuentes, Juan
Rulfo, eppure più inclini ad accantonarli con tranquilla indifferenza o a ripensarli
criticamente, piuttosto che a dileggiarli o a coprirli di insulti come quelli che
Roberto Bolaño e i suoi poeti infrarrealistas riservarono a Paz e a Carlos
Monsiváis negli anni ’70.
Pronti a esibire registri linguistici e narrativi differentissimi, che vanno
dalla sperimentazione più audace al realismo “sporco” a un intimismo così delicato
da risultare esangue, i nuovi autori messicani sembrano non avere molto in comune,
se non il rifiuto di ogni etichetta generazionale e l’estraneità a movimenti, scuole,
teorie e programmi come quelli che alla fine degli anni ’90 originarono il Manifiesto
del Crack, dichiarazione di rottura con i narratori del postboom sottoscritta
tra gli altri da Jorge Volpi e Ignacio Padilla. E, tuttavia, attraverso questo paesaggio
composto di individualità letterarie così fermamente rivendicate corre una sottile
e incerta linea di confine che sembra accennare all’esistenza di due schieramenti
opposti: da una parte quanti preferiscono sottrarsi all’influenza del “mito messicano
per eccellenza” (la definizione è di Cristopher Domínguez Michael), cioè il narcotraffico
e le sue conseguenze, e dall’altra quanti non vogliono allontanare l’amaro calice
della terribile “messicanità” che impregna di sé l’immaginario attuale. Se i primi
fanno giustamente notare che una letteratura prigioniera di un unico argomento è
inconcepibile – anzi, non è letteratura ma “un carcere mentale”, dice qualcuno –,
i secondi hanno davanti a sé due strade: adattarsi alle richieste del mercato editoriale,
affamato di una narcoliteratura divenuta un vero e proprio “genere” altamente
vendibile, oppure accostarsi alla tragedia nazionale nei modi meno prevedibili,
affrontarla con linguaggi nuovi, sublimarla, tradurla in un’atmosfera o in un’allusione,
e perfino in satira e risata.
Tra le tante vie possibili, una delle più complesse e personali l’ha scelta
Yuri Herrera, nato nel 1970 ad Actopan, laureato a Berkeley e oggi professore all’Università
di New Orleans, il cui progetto narrativo appare ormai ben definito grazie al suo
ultimo romanzo, che completa una trilogia sul Messico contemporaneo elaborata con
riflessiva lentezza nell’arco di dieci anni, e che gli ha guadagnato un considerevole
numero di lettori, l’approvazione della critica, diversi premi importanti e un prestigio
cresciuto col tempo in tutto il mondo di lingua spagnola, ma anche in Nordamerica
e in Europa.
Se nei primi due testi Herrera aveva raccontato in forma di crudelissima fiaba
alcuni aspetti della realtà messicana come il potere narco e la sua capacità di
produzione culturale, o il duro viaggio verso gli USA degli indocumentados
e la loro fantasmatica presenza di immigrati, descrivendo con tocchi precisi ed
essenziali luoghi come il deserto e la frontiera, qui lo vediamo spostare l’asse
della narrazione in una imprecisata realtà urbana, una metropoli labirintica dove
lo Stato ha abdicato al compito di salvaguardare la vita e la sicurezza dei cittadini,
trasformando la propria impotenza in complicità. Tre sfondi emblematici, insomma,
e tre protagonisti che lo sono altrettanto: un cantante che si affranca dal servizio
di un signore della droga grazie al potere dell’arte (La ballate del re di denari,
La Nuova Frontiera 2011); una ragazza che attraversa il confine per cercare il fratello
perduto e nel corso della sua migrazione clandestina ripercorre simbolicamente i
nove livelli del Mictlan, il regno dei morti (Segnali che precederanno la fine
del mondo, La Nuova Frontiera 2012); e infine un giovane avvocato che, in un
contesto di violenza estrema, appiana questioni impossibili, servendosi solo delle
parole e nuotando sotto la superficie immobile della legge (il nuovissimo La
trasmigrazione dei corpi, Feltrinelli, pag. 95).
È quest’ultimo, il Mediatore, versione moderna dell’abile e saggio Alfaqueque
– colui che nel medioevo negoziava la libertà degli spagnoli prigionieri dei musulmani
–, a guidare il lettore lungo le strade di una città ammutolita e deserta per colpa
di un’epidemia misteriosa, zigzagando insieme ai suoi improbabili assistenti tra
i posti di blocco e gli arbitrii di una polizia brutale, fino a risolvere un problema
che, oltre alla rivalità tra due famiglie criminali, include la “trasmigrazione”
per nulla immateriale di corpi senza vita, finiti nelle mani sbagliate e ostaggi
di un furore troppo antico per venire sradicato.
Il romanzo è breve, la trama semplice, com’è del resto abitudine dell’autore
che qui conferma tutte le qualità e caratteristiche della sua opera, in primo luogo
la scelta di narrare il presente ricorrendo alla laconicità stilizzata del mito
e a una costante evocazione della tragedia (la faida tra famiglie rivali e i due
cadaveri appena adolescenti hanno accenti shakespeariani), ma anche del narcocorrido,
della telenovela, del melò cinematografico messicano anni ’50. Un innesto tra classici
e cultura popolare attentamente calibrato, che non si ferma alla struttura del racconto
ma investe soprattutto l’uso del linguaggio, perché la prosa di Herrera mescola
termini colti al fraseggio orale, fitto di messicanismi e di gergo dei narcos, e
poi lavora il tutto fino a ottenere un impasto pieno di neologismi e invenzioni,
musicale e sonoro, però limato e tenuto sotto controllo al punto da apparire scarno.
E se la tecnica è di derivazione rulfiana, il giovane scrittore la adopera in modo
così personale da farla completamente sua e da porre allo stesso tempo ostacoli
solo in parte superabili alla trasposizione in un’altra lingua. Nonostante la traduzione
di Pino Cacucci riveli l’accurata ricerca delle migliori soluzioni possibili è infatti
inevitabile che al lettore italiano arrivi soltanto una pallida eco del ritmo, del
sapore, dell’intelligenza di una scrittura distillata con minuzia, fino ad apparire
fluida e naturale, là dove, invece, è infinitamente costruita e pensata.
Ma anche così, in una lingua diversa che può rendergli giustizia fino a un certo
punto, La trasmigrazione dei corpi ci appare per quello che è: il romanzo
di uno scrittore dalla voce inconfondibile, capace di rappresentare la situazione
sociale e politica del Messico senza concedere nulla agli stereotipi, al sensazionalismo
e alla maniera ormai esausta della narcoliteratura, e che al contempo si rivela
suscettibile di interpretazioni più ampie, visto che in fin dei conti si parla di
temi universali, ossia di vendetta, potere, violenza, morte e ancora morte, insomma
di un caos che la parola e la ragione (il Mediatore) tentano di ricomporre per puro
spirito di sopravvivenza, forse invano, ma ostinandosi ogni volta a ricominciare
daccapo.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel mese di maggio 2014