Missing, storia di un uomo perduto
Capita di rado che un libro riceva critiche positivamente unanimi, appassionate
e, in qualche caso, felicemente stupite, com’è accaduto per Missing. Una investigación
del cileno Alberto Fuguet (Missing. Una ricerca, La Nuova Frontiera), approdato
anche nelle librerie italiane nella bella traduzione di Chiara Muzzi, a tre anni
dalla sua prima uscita in lingua originale. Ignacio Echeverría, uno dei più autorevoli
e temuti critici della Spagna contemporanea, l’ha collocato tra i cento romanzi
in lingua spagnola scritti tra il 1950 e il 2010 che bisogna assolutamente leggere
(Los libros esenciales de la literatura en español, Editorial Lunwerg 2011),
Vargas Llosa l’ha elogiato sui quotidiani di due continenti, i critici e scrittori
cileni Álvaro Bisama e Rafael Gumucio lo hanno lodato, mentre Fogwill, geniale scrittore
argentino morto l’anno scorso e critico severo, gli ha riservato parole entusiaste.
E perfino l’aggressiva, irridente rivista cilena The Clinic ha definito Missing
“il romanzo dell’anno… Un libro redentore, fresco e maturo”.
A questa pioggia di riconoscimenti Fuguet non dev’essere del tutto abituato,
visto che il suo rapporto con la critica non è stato né facile né tranquillo sin
dall’apparizione, nel 1991, del vendutissimo romanzo d’esordio Mala Onda
(esplicito omaggio a Il giovane Holden di Salinger e a Meno di zero
di Easton Ellis), e soprattutto dell’antologia MacOndo (Grijalbo Mondadori,
1996), rassegna parziale ma significativa di una nuova narrativa latinoamericana
iperrealista e urbana, nutrita di cinema USA e musica pop, dichiaratamente ibrida
e avversa al sacro canone del realismo magico. Qualcosa, insomma, che nonostante
la difesa di Carlos Fuentes venne letto da più parti come un puro colpo di marketing,
una “americanata” postmoderna (e di conseguenza un’espressione del neoliberismo,
almeno secondo l’equazione stabilita dalla pungente Diana Palaversich nel suo saggio
De Macondo a McOndo, Plaza y Valdés 2005), ma che oggi va considerata soprattutto
come uno dei tentativi compiuti negli anni ’90 di infrangere gli stereotipi identitari
fissati dalle attese di un pubblico europeo e nordamericano assai lento nel percepire
l’ampiezza e la pluralità di orizzonti delle letterature latinoamericane, non più
costrette a mostrare il “passaporto” dell’esotismo e capaci di rimettersi costantemente
in gioco.
Così come, dopo un’intensa attività letteraria e giornalistica cui si è intrecciata
quella di sceneggiatore, produttore e regista, si è rimesso in gioco Alberto Fuguet,
che con questo libro – il suo migliore e il più audace – ci ha dato un’opera diversa
da tutte quelle scritte in precedenza ma, allo stesso tempo, impensabile senza di
esse. In ciascuna, infatti, c’è almeno un dettaglio, un’ombra, un frammento, un’immagine
– e a volte molto di più, come in I film della mia vita, uscito presso Marcos
y Marcos nel 2004 – che in qualche modo annuncia Missing, in cui confluiscono,
rinnovati, i suoi temi di sempre: lo sradicamento, l’adolescenza, il viaggio e la
fuga, la ricerca del padre, lo stretto rapporto con la lingua e la cultura nordamericane,
le figure amate-odiate di una famiglia conflittuale, la solitudine, l’accanita cinefilia.
Appena corretta qua e là da quei minimi tocchi di finzione che servono a rendere
più credibile la realtà, Missing è la storia vera della famiglia Fuguet,
emigrata in California per fare fortuna, nonché quella di un ragazzino, Alberto,
che nasce a Santiago nel 1964, a pochi mesi è già un immigrato e a metà degli anni
’70 si ritrova di nuovo in Cile senza quasi sapere lo spagnolo, tra compagni di
scuola che lo chiamano gringo e lontano dal padre che presto lo abbandona
per tornarsene negli USA. Ma soprattutto è la storia di Carlos Fuguet, zio paterno
di Alberto, svanito dall’orizzonte familiare nel 1986, pecora nera mai cercata dai
suoi e ritrovata trent’anni dopo grazie all’ostinazione del nipote, che lo percepisce
come una sorta di “doppio”, un altro sé stesso che si è letteralmente perduto, e
in più di un senso.
Il Carlos che rompe ogni legame e non dà più notizie è molto diverso dallo studente
izquierdista partito dal Cile, ma anche dallo zio hippy che suonava il bongo
e sapeva di marijuana: è un piccolo, quasi ingenuo truffatore che ha conosciuto
il carcere e infangato l’onore della famiglia. Ed è attorno a lui che Fuguet costruisce,
in uno spagnolo colloquiale, spontaneo, spesso contaminato dall’inglese, una narrazione
appassionante e complessa in cui si alternano cronaca, intervista, racconto di viaggio,
mail e lettere, fino al prodigioso, lunghissimo capitolo in cui Carlos parla in
prima persona della propria vita, in una prosa senza maiuscole e spezzata da continui
“a capo”, non per formare dei versi ma per segnalare l’alterità di una voce e di
un’esperienza.
Carlos che con i soldi rubati si compra una Cadillac celeste, Carlos che beve
champagne a Las Vegas, sposa donne improbabili, è l’amante di un marinaio per una
notte, festeggia la conquistata cittadinanza americana sventolando una microscopica
bandierina a stelle e strisce, si guadagna da vivere come concierge in alberghi
e motel sempre più squallidi… La sua storia e quella di Alberto disegnano una doppia
ricerca di sé e dell’altro, il cui esito finale è dare un senso a tutto quello che
è stato: trasformandosi in personaggio, Carlos Fuguet riconosce se stesso e trova
il bandolo del suo destino di emigrante involontario che, ancora ragazzo, è stato
strappato d’un colpo a un paese e una lingua (la stessa cosa che accadrà a Alberto,
sulla soglia dell’adolescenza) e, immerso a forza nel “sogno americano”, ha sbagliato
tutto per poter raggiungere una sorta di suprema libertà e scivolare verso una vecchiaia
quasi indigente, ma curiosamente intrepida.
L’affermazione del diritto a perdersi e a scegliere una solitudine estrema,
un’estrema separatezza, contravvenendo a tutte le aspettative e le regole di una
famiglia crudelmente normale, si specchia in un contesto urbano desolato, in pianure
vuote, in edifici geometrici e interni spogli, in strade che procedono all’infinito:
è l’America di Edward Hopper, di Wim Wenders, di innumerevoli film hollywoodiani,
ma anche di Musica campesina, il bel film che Fuguet ha girato a Nashville
nel 2011 e che potrebbe essere una ideale continuazione di Missing. E, in
questo paesaggio cinematograficamente realistico ancor prima che reale, Carlos risulta
due volte straniero, perché nemmeno gli altri migranti lo riconoscono come loro
simile: non è un vero americano ma neppure il tipico hispanic, il suo spagnolo
è diverso e così pure la sua faccia chiara da catalano.
“Tutti quelli che hanno cambiato paese e vita si fanno la domanda: se fossi
rimasto dove sono nato, cosa sarebbe successo? Cosa sarebbe accaduto a Carlos Fuguet
in Cile? Sarebbe diventato un professore? Un guerrigliero? Sarebbe sparito per mano
dell’esercito di Pinochet? La mia tesi da nipote è che gli Stati Uniti hanno rovinato
mio zio” scrive Fuguet, all’inizio di quella che è certo la storia di un danno,
di un’ibridazione in apparenza fallita, ma anche del raggiungimento di una quasi
ascetica serenità che ha imparato a fare a meno di tutto.
Missing, però, non è solo un’antieroica, sommessa
epopea dell’emigrazione, sospesa tra due lingue e due nazioni, tra biografia e autobiografia,
tra sincerità e finzione: è anche una saga familiare fatta di abbandoni, rancori,
incomprensioni, rabbia, paura, odio perfino, e allo stesso tempo di un cauto ritrovarsi,
nonostante tutto. E soprattutto è un esempio di come la cosiddetta autofiction,
così largamente praticata e in buona parte diventata una stucchevole “maniera”,
non debba necessariamente diventare “la riflessione intorno alle pieghe del proprio
ombelico che sembra condannarla a essere un equivalente postmoderno del nouveau
roman”, come nota il critico messicano Geney Beltrán Félix, ma possa acquistare
tutta la forza e le capacità narrative di un vero, grande romanzo moderno.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2012