sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Roncagliolo e Alarcón


Santiago Roncagliolo                                                                                                     Daniel Alarcón



  
 

Una terribile normalità

Santiago Roncagliolo (1975) e Daniel Alarcón (1977) hanno più o meno la stessa età, sono nati a Lima verso la metà degli anni’70, vivono da molto tempo lontani dal loro paese d’origine, scrivono romanzi e racconti tradotti in mezzo mondo e hanno affrontato più di una volta il tema della violenza politica e della guerra sporca combattuta durante la loro adolescenza tra l’esercito di Fujimori e i militanti di Sendero Luminoso: una tragedia che è costata al Perù oltre settantamila morti.

Due scrittori che hanno molto in comune, quindi, ma che alle somiglianze affiancano altrettante differenze, e non solo per quanto riguarda lo stile e la scrittura. Tra i due, infatti, il più “internazionale” per trame e argomenti, appare Roncagliolo, mentre a raccontare soprattutto vicende e personaggi fortemente peruviani è Alarcón, cresciuto in Alabama e ormai cittadino americano che scrive in inglese, e che viene alternativamente segnalato come uno dei migliori fra i giovani scrittori tanto latinoamericani che statunitensi. L’eclettico Roncagliolo, inoltre, ha finora affrontato generi diversi, dal thriller politico alla fantascienza, dal racconto intimista al romanzo biografico, mentre il più legato all’influsso dei grandi maestri del realismo peruviano è proprio il “nordamericano” Alarcón.

Le traduzioni italiane del primo romanzo di Alarcón e dell’ antologia che nel 2005 segnò il debutto di Roncagliolo come narratore sembrano confermare questo dato curioso, perché Radio Città Perduta (Einaudi) racconta, pur senza dare un nome preciso a luoghi ed eventi, vicende che rimandano alle atrocità della guerra sucia e ai suoi desaparecidos, che un’immaginaria giornalista radiofonica cerca di rintracciare attraverso una trasmissione seguita in tutto il paese, mentre i racconti di Crescere è un mestiere triste (Keller) parlano di una transizione dall’infanzia all’adolescenza, di famiglie complicate e disastrate, di iniziazioni al sesso – storie più o meno universali, insomma, senza una particolare connotazione nazionale. E tuttavia, a una più approfondita lettura, la faccenda si complica.

I racconti di Roncagliolo (che ha trascorso i primi dieci anni della sua vita in Messico, dove suo padre era in esilio, ma che è cresciuto a Lima) contengono infatti una serie di accenni, di sfumature, di annotazioni quasi impercettibili che li collocano in un contesto inequivocabile: quello della capitale peruviana ai tempi della guerra sporca, quando un bambino poteva venire rapito da un tassista misterioso, e la luce mancava di colpo durante i pranzi di famiglia per via di un ennesimo attentato, e i compagni di scuola si trasferivano all'estero per mettersi al sicuro… Queste storie malinconiche e umoristiche insieme, questi personaggi in cui è così facile riconoscere le maschere dell’adolescenza, ci offrono un’infinità di tracce che aiutano a capire come si possa vivere un’infanzia tutto sommato “normale” (ma non cieca, non inconsapevole) in un paese in guerra. La terra senza nome del romanzo di Alarcón, con i suoi guerriglieri e i suoi indios, le sue foreste e la sua megalopoli, la censura di regime e le voci dei morti che sembrano esigere di essere nominati e ricordati, è invece, a ben guardare, un Perù inventato e del tutto personale, il Perù che può immaginare un ragazzo la cui lingua degli affetti è lo spagnolo, ma che solo più tardi, da adulto, si è sentito davvero curioso delle proprie origini, della memoria e della storia di un paese che a un tratto esige di essere raccontato, di esistere, di farsi presenza concreta.

Se si pensa, poi, ad altre opere degli stessi autori – i racconti di Alarcón, in parte pubblicati in Italia da Terre di Mezzo (Guerre a lume di candela, 2006), in cui immigrazione e meticciato diventano temi fondanti; il romanzo Abril Rojo di Roncagliolo (uscito da Garzanti nel 2009 col titolo I delitti della Settimana Santa, e vincitore del Premio Alfaguara), oppure il suo volume di crónicas La cuarta espada, che ripercorre la storia di Sendero Luminoso e la intreccia alla propria vicenda personale di ragazzo “bianco, della capitale e medio borghese” – ci si rende conto di come somiglianze e differenze non siano una semplice curiosità.

Roncagliolo e Alarcón, infatti, ci propongono ciascuno a suo modo il problema dell’appartenenza a due o più mondi, a due o più culture, e dello sradicamento a volte involontario (l’esilio per Roncagliolo, l’emigrazione per Alarcón, entrambi ancora bambini), a volte scelto (Roncagliolo vive ora in Spagna, Alarcón risiede e insegna negli Stati Uniti), che li fa incamminare in direzione di una identità sovranazionale, composita, multipla. Una identità nomade, per amore o per forza, che è sempre più il destino non solo di coloro che riconoscono nella lingua o nella letteratura la propria patria, ma di tutti quelli che per una qualsiasi ragione si trovino proiettati in un qualsiasi altrove. Un tema, l’identità, che porta con sé quello della memoria, intesa non solo come ricostruzione o interpretazione, ma anche come reinvenzione del passato collettivo: così come Alarcón costruisce un suo proprio Perù, Roncagliolo ne rivede la storia recente alla luce delle sue sensazioni di ragazzo cresciuto nella “normalità” di attentati o rapimenti.

Memoria, identità, immigrazione, fusione di culture: una materia più che mai ribollente che sta lentamente facendo affiorare nella nuova scrittura latinoamericana, accanto ai temi del corpo e dell’intimità che negli ultimi anni sembravano dominare la narrativa dei più giovani, anche schegge di una politica messa a lungo da parte e ora ripensata in chiave post-ideologica, come è evidente dall'ultimo romanzo del boliviano Paz-Soldán, dai racconti di Rodrigo Hasbún (boliviano anche lui), o dallo splendido Missing, ultimo lavoro del cileno Alberto Fuguet. Perché, come ha osservato tempo fa Roncagliolo, “credevamo che la politica non fosse importante e abbiamo scoperto che continua a essere la cosa più importante di tutte”.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2012