Santiago Roncagliolo Daniel Alarcón |
Una terribile normalità
Santiago Roncagliolo (1975) e Daniel Alarcón (1977) hanno più o meno la stessa
età, sono nati a Lima verso la metà degli anni’70, vivono da molto tempo lontani
dal loro paese d’origine, scrivono romanzi e racconti tradotti in mezzo mondo e
hanno affrontato più di una volta il tema della violenza politica e della guerra
sporca combattuta durante la loro adolescenza tra l’esercito di Fujimori e i militanti
di Sendero Luminoso: una tragedia che è costata al Perù oltre settantamila morti.
Due scrittori che hanno molto in comune, quindi, ma che alle somiglianze affiancano
altrettante differenze, e non solo per quanto riguarda lo stile e la scrittura.
Tra i due, infatti, il più “internazionale” per trame e argomenti, appare Roncagliolo,
mentre a raccontare soprattutto vicende e personaggi fortemente peruviani è Alarcón,
cresciuto in Alabama e ormai cittadino americano che scrive in inglese, e che viene
alternativamente segnalato come uno dei migliori fra i giovani scrittori tanto latinoamericani
che statunitensi. L’eclettico Roncagliolo, inoltre, ha finora affrontato generi
diversi, dal thriller politico alla fantascienza, dal racconto intimista al romanzo
biografico, mentre il più legato all’influsso dei grandi maestri del realismo peruviano
è proprio il “nordamericano” Alarcón.
Le traduzioni italiane del primo romanzo di Alarcón e dell’ antologia che nel
2005 segnò il debutto di Roncagliolo come narratore sembrano confermare questo dato
curioso, perché Radio Città Perduta (Einaudi) racconta, pur senza dare un
nome preciso a luoghi ed eventi, vicende che rimandano alle atrocità della guerra
sucia e ai suoi desaparecidos, che un’immaginaria giornalista radiofonica
cerca di rintracciare attraverso una trasmissione seguita in tutto il paese, mentre
i racconti di Crescere è un mestiere triste (Keller) parlano di una transizione
dall’infanzia all’adolescenza, di famiglie complicate e disastrate, di iniziazioni
al sesso – storie più o meno universali, insomma, senza una particolare connotazione
nazionale. E tuttavia, a una più approfondita lettura, la faccenda si complica.
I racconti di Roncagliolo (che ha trascorso i primi dieci anni della sua vita
in Messico, dove suo padre era in esilio, ma che è cresciuto a Lima) contengono
infatti una serie di accenni, di sfumature, di annotazioni quasi impercettibili
che li collocano in un contesto inequivocabile: quello della capitale peruviana
ai tempi della guerra sporca, quando un bambino poteva venire rapito da un
tassista misterioso, e la luce mancava di colpo durante i pranzi di famiglia per
via di un ennesimo attentato, e i compagni di scuola si trasferivano all'estero
per mettersi al sicuro… Queste storie malinconiche e umoristiche insieme, questi
personaggi in cui è così facile riconoscere le maschere dell’adolescenza, ci offrono
un’infinità di tracce che aiutano a capire come si possa vivere un’infanzia tutto
sommato “normale” (ma non cieca, non inconsapevole) in un paese in guerra. La terra
senza nome del romanzo di Alarcón, con i suoi guerriglieri e i suoi indios, le sue
foreste e la sua megalopoli, la censura di regime e le voci dei morti che sembrano
esigere di essere nominati e ricordati, è invece, a ben guardare, un Perù inventato
e del tutto personale, il Perù che può immaginare un ragazzo la cui lingua degli
affetti è lo spagnolo, ma che solo più tardi, da adulto, si è sentito davvero curioso
delle proprie origini, della memoria e della storia di un paese che a un tratto
esige di essere raccontato, di esistere, di farsi presenza concreta.
Se si pensa, poi, ad altre opere degli stessi autori – i racconti di Alarcón,
in parte pubblicati in Italia da Terre di Mezzo (Guerre a lume di candela,
2006), in cui immigrazione e meticciato diventano temi fondanti; il romanzo Abril
Rojo di Roncagliolo (uscito da Garzanti nel 2009 col titolo I delitti della
Settimana Santa, e vincitore del Premio Alfaguara), oppure il suo volume di
crónicas La cuarta espada, che ripercorre la storia di Sendero Luminoso e
la intreccia alla propria vicenda personale di ragazzo “bianco, della capitale e
medio borghese” – ci si rende conto di come somiglianze e differenze non siano una
semplice curiosità.
Roncagliolo e Alarcón, infatti, ci propongono ciascuno a suo modo il problema
dell’appartenenza a due o più mondi, a due o più culture, e dello sradicamento a
volte involontario (l’esilio per Roncagliolo, l’emigrazione per Alarcón, entrambi
ancora bambini), a volte scelto (Roncagliolo vive ora in Spagna, Alarcón risiede
e insegna negli Stati Uniti), che li fa incamminare in direzione di una identità
sovranazionale, composita, multipla. Una identità nomade, per amore o per forza,
che è sempre più il destino non solo di coloro che riconoscono nella lingua o nella
letteratura la propria patria, ma di tutti quelli che per una qualsiasi ragione
si trovino proiettati in un qualsiasi altrove. Un tema, l’identità, che porta con
sé quello della memoria, intesa non solo come ricostruzione o interpretazione, ma
anche come reinvenzione del passato collettivo: così come Alarcón costruisce un
suo proprio Perù, Roncagliolo ne rivede la storia recente alla luce delle sue sensazioni
di ragazzo cresciuto nella “normalità” di attentati o rapimenti.
Memoria, identità, immigrazione, fusione di culture: una materia più che mai
ribollente che sta lentamente facendo affiorare nella nuova scrittura latinoamericana,
accanto ai temi del corpo e dell’intimità che negli ultimi anni sembravano dominare
la narrativa dei più giovani, anche schegge di una politica messa a lungo da parte
e ora ripensata in chiave post-ideologica, come è evidente dall'ultimo romanzo del
boliviano Paz-Soldán, dai racconti di Rodrigo Hasbún (boliviano
anche lui), o dallo splendido Missing, ultimo lavoro del cileno Alberto Fuguet.
Perché, come ha osservato tempo fa Roncagliolo, “credevamo che la politica non fosse
importante e abbiamo scoperto che continua a essere la cosa più importante di tutte”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2012